gli articoli L'Espresso/

Calvario Wojtyla

26/08/2004

Per i cattolici più strenui, lo strazio pubblico di Karol Wojtyla è uno scandalo virtuoso, una provocazione vitale, una smentita assoluta della logica realtà postmoderna. Il mondo contemporaneo è leggero, il cristianesimo di Giovanni Paolo II è pesante. Ci vuole un certo anticonformismo per sostenere questa tesi: il pellegrinaggio a Lourdes è stato forse l’esibizione più crudele della vecchiaia e della malattia del papa. Davanti alla grotta delle apparizioni, Giovanni Paolo II ha detto: «Sono giunto alla meta del mio pellegrinaggio». Quasi un "consummatum est", il presagio della fine mischiato all’orgoglio di stare adempiendo a un compito irrinunciabile. Molti dei 300 mila fedeli che a Lourdes hanno assistito all’omelia dell’Assunta sono stati presi dalla commozione, anzi spesso dal pianto, quando il pontefice piegato dalla fatica, dal dolore, dal morbo che lo fa tremare, da una crisi respiratoria, si è guardato intorno quasi con smarrimento e ha chiesto: «Aiutatemi». Lo ha detto in polacco, riprendendo il linguaggio della sua gioventù forte, del suo passato atletico, della sua piena padronanza di se stesso: «Promoczie mi». Gli hanno dato un bicchiere d’acqua, mentre la folla lo sosteneva con un lungo applauso, vale a dire il sostegno di chi non ha altro strumento se non il gesto televisivo del battere le mani. Pianti, applausi. Rivolti entrambi a immagini di una fragilità estrema, punteggiate dal sospiro di alcune giaculatorie nella sua lingua natale: «Gesummaria», quando la voce si spegneva in gola e il respiro sembrava fermarsi. Vittorio Messori, sul "Corriere della Sera", non ha avuto dubbi: «In un mondo di lifting, di fitness, ecco un vegliardo con Parkinson in fase avanzata che continua, con fedeltà puntuale, il suo ministero, esponendo alle telecamere, agli obbiettivi elettronici, alle folle, lo sfacelo di un corpo tremante e ansimante…». Già, un supershow in perfetta e totale controtendenza, per chi apprezza gli scandali. Una negazione totale dell’ideologia contemporanea, che invece nasconde la malattia e la morte, rendendoli il tabù più forte del mondo secolarizzato, del tutto disinibito. Lourdes testimonia con una forza spettacolare inedita un "ecce homo" in cui il Vicario di Cristo, attraverso il suo personale calvario, «in un mondo che sembra più carente di forza morale che di tutto si lagna, di tutto fa tragedia», dimostra che lo spirito indomabile può «padroneggiare sino all’estremo la carne ormai riluttante». Davanti al "corpo banalizzato" di cui nella messa di Ferragosto a Milano ha parlato anche il cardinale Dionigi Tettamanzi, di fronte ai costumi «contagiati dal materialismo, edonismo e relativismo», il corpo del papa rappresenta una contestazione vivente, in cui la sofferenza e il dolore vengono vissuti come una testimonianza infinita. Va bene, ma a quale scopo? Qual è il senso di questa "Passion of Christ" a cui sembrano mancare soltanto gli slow motion e gli effetti speciali di Mel Gibson? Non sono mai sembrate particolarmente chiare e razionali le argomentazioni di chi sostiene che Wojtyla ormai da anni "cerca" il martirio: come se avesse chiaro da tempo che il suo corpo è stato sfruttato fino all’ultima fibra, che non c’è più speranza di un recupero fisico significativo, e per questo vale la pena di consumare le proprie membra sino alla fine, sino alla mortificazione e alla morte, affinché il servizio alla Chiesa e a Dio sia completo, esauriente, pervasivo, ulteriore. Secondo altre argomentazioni, i gesti estremi di Giovanni Paolo II rappresentano la negazione incarnata e visibile dei progetti più o meno riformatori, quelli che serpeggiano nella Chiesa ipotizzando l’istituzionalizzazione della fine del mandato papale. Sempre Messori giudica «manageriale», e quindi non consona alla radicalità del messaggio evangelico, una prospettiva ecclesiastica con incarichi a tempo, limiti di età, giudizio collegiale in base alle condizioni di salute, eventuali dimissioni per malattia o insostenibilità apparente dell’incarico. Secondo i tradizionalisti, la Chiesa non è un consiglio d’amministrazione. Ma altri osservatori delle vicende vaticane, dopo avere preso nota delle voci secondo cui poche settimane fa Wojtyla era sembrato prossimo alla morte, preda di una crisi apparentemente irrecuperabile (al punto da indurre a richiamare in Vaticano alcuni cardinali di curia), sostengono la tesi opposta: proprio l’esibizione mediatica della malattia del papa, proprio il peso insostenibile e per molti incomprensibile di quel corpo straziato potrebbe essere un argomento in più al prossimo conclave, inducendo a privilegiare un candidato che si manifesti ragionevole sulla durata e la sostenibilità fisica e intellettuale della missione papale. Ma al di là delle discussioni canonistiche sull’istituzione papale, con tutte le loro implicazioni teologiche, ciò che colpisce nella via crucis di Giovanni Paolo II è la rottura di una tradizione. Il riserbo sulla salute dei pontefici era tale da avere favorito la diffusione di sensazionali e ciniche battute secondo cui, ad esempio, «fino a qualche ora dopo la morte, la salute di qualsiasi papa è sempre eccellente». In secondo luogo, la liturgia cerimoniale, con la costruzione della ritualità del potere, è una convenzione vaticana suprema, che finora ha scelto sempre di velare più che di mostrare, e semmai di esibire lo splendore e non la miseria. Dei "due corpi del re", il corpo fisico e il corpo simbolico, che venivano attribuiti ai monarchi medievali, il sovrano e santo pontefice doveva mostrare quello culturale della gloria e della potenza, della sacralità e della fede, con i suoi simboli e i suoi gesti. Nulla doveva invece trasparire della debolezza e della infermità, del male che si annida nel corpo reale e lo svuota di energia e di potere. Perfino dopo la morte, il corpo del pontefice doveva apparire in una sorta di integrità miracolosa, garantita da balsami infallibili (salvo poi fallire spaventosamente, come si è sempre divertito a ricordare Alberto Arbasino, allorché il cadavere del "Duodecimo", papa Pacelli, "esplose" in piazza san Pietro, con le guardie svizzere svenute lì attorno). Invece adesso ci sono pool di esperti che aiutano i cardinali e i collaboratori del papa, se non il papa stesso, a valutare l’effetto mediatico della malattia esposta in pubblico, analizzando videocassette che raccolgono i servizi televisivi sui viaggi papali, per giudicare se la dolente vecchiaia di Wojtyla appartiene alla sfera del mistero, se esprime ancora un indicibile messaggio di conversione, se attrae la compassione o la pietà dell’audience mondiale, oppure se rappresenta ormai solo uno spettacolo intollerabile, completamente avulso dalla sensibilità comune, qualcosa da rifiutare come una sorta di hardcore della religione. Come ha ricordato il vaticanista Marco Tosatti su "La Stampa", non tutte le televisioni hanno pudore nel riprendere la decadenza corporea dell’ottantaquattrenne Wojtyla. Le reti americane «sono più impietose nel mostrare i momenti di debolezza o di stanchezza». E quindi in Vaticano ci si chiede se «l’icona del papa sofferente che vuole fare della sua malattia un’ulteriore arma di evangelizzazione» è ancora autentica ed efficace oppure è semplicemente insopportabile. Il papa che si accascia, che quasi cade, che fatica a respirare, che nel primo piano televisivo si asciuga un angolo della bocca con la manica ricamata sarà uno spettacolo impressionante, ma potrebbe anche essere un’immagine troppo dura e respingente. Probabilmente c’è nell’atteggiamento di Giovanni Paolo II una considerazione particolarmente sentita del cattolicesimo come di una fede materiale, addirittura carnale. Chi ha potuto vedere almeno una volta il papa pregare non ha potuto evitare di stupirsi di fronte all’intensità quasi dolorosa della sua preghiera, alla dedizione di una fede "hard", praticamente medievale, come se le mani e la fronte di Wojtyla si ponessero a diretto contatto con la pietra delle cattedrali in cui si è inginocchiato, cercando la divinità oltre la durezza della materia. Fino a qualche anno fa, il senso spettacolare della missione wojtyliana conferiva una forza speciale ai suoi gesti, sia che la sua voce echeggiasse altissima su tutto lo spazio dell’Europa cristiana, al di sopra delle separazioni geopolitiche, sia che consacrasse solennemente la Russia a Maria Vergine, adempiendo a un messaggio della Madonna di Fatima, sia ancora criticasse il trionfante capitalismo, indicando «i grani di verità» del marxismo. Ancora oggi la violenza profetica o semantica di Giovanni Paolo II è tale da mobilitare a Lourdes i "nuovi cattolici", le comunità tradizionaliste raccolte intorno alle grandi abbazie, con gli adepti giovanissimi che vestono abiti medievali. E il suo prestigio è tale che tutti i leader eredi della Francia radicale e giacobina, laica e secolarizzata, liberale e agnostica, tutti, da Jacques Chirac a Dominique de Villepin, compresi i prefetti in alta uniforme, a Lourdes gli hanno baciato la mano. Da una parte dunque si percepisce ancora la traccia di un carisma eccezionale, dall’altro si manifesta il rischio che la figura papale diventi un monstrum mediatico. Perché forse nemmeno un agitatore di eventi come Karol Wojtyla può permettersi di finire in un reality show permanente.

Facebook Twitter Google Email Email