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Cavalier Sorriso e capitan Miracolino

16/03/2000

In superficie, la campagna per le elezioni regionali è tutta un gioco di aggregazioni nel centro- destra e nel centrosinistra, con gli inevitabili attriti che nascono allorché si tenta di mettere insieme ciò che è incompatibile (come è avvenuto nel Polo con i radicali) o quando gli alleati minori avvertono come un danno il peso e l’ingombro dei Ds (vedi la Bassolineide con i popolari). Ma se si ha la pazienza di guardare sotto le increspature, e al di là del fatale 16 aprile, ci si accorge che è già in corso la grande campagna delle politiche. E che questa campagna, sottotraccia ma rilevabile, si basa sul faccia a faccia tra due protagonisti, Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi: due uomini, due strategie, due parole d’ordine rivolte alla società italiana. Il capo di Forza Italia ha rilanciato la strategia del grande sorriso. Il presidente del Consiglio si aggrappa alla performance economica, alla scia della ripresa, al "miracolino". Berlusconi sparge l’ottimismo del vincitore. Anche se non perde occasione per riproporre i suoi slogan anticomunisti, contro «quell’ideologia che ha prodotto solo terrore, oppressione e miseria», e che ha come conseguenza «l’ostilità all’iniziativa privata, alla sua logica e ai suoi protagonisti, rimasta intatta nei precordi della sinistra italiana», gli scenari che il leader forzista prospetta all’opinione pubblica sono virati in azzurro. Si rivolge "coeur in man" ai giovani, alle piccole imprese estranee all’establishment, all’Italia del privato e della tv, ai professionisti, agli artigiani e ai pensionati, per comunicare un messaggio e uno solo: avremmo in mano la ricetta per fare del nostro paese una terra radiosa e solo un regime occhiuto e "illegittimo" impedisce questa prospettiva di serenità e ricchezza per tutti. Le convinzioni del Cavaliere sono ferree. Sarebbe riuscito a fare da garante all’alleanza con Emma Bonino, se Marco Pannella non ci si fosse messo di mezzo. Avrebbe distinto sottilmente tra valori ideali e programma politico in modo da estinguere sul nascere i conflitti fra i cattolici proibizionisti del Polo e i libertari della droga legalizzata, fra maggioritari e proporzionalisti, fra opposte interpretazioni della bioetica. La formula di base della sua estesa alleanza è naturalmente quella economica: aznariana, spagnola, liberalizzatrice. E soprattutto popolare, con il formidabile richiamo anti-tasse siglato dalla griffe del fiscalista Giulio Tremonti: «no tax area» per i ceti più bassi, il 23 per cento di imposizione fino a 200 milioni di reddito, un’aliquota massima del 33 oltre i 200. E poi, giù un radicale sfoltimento dalle imposte (otto tasse in tutto), leggi speciali per svincolare le grandi infrastrutture, delegificazioni, semplificazioni, sburocratizzazioni. D’Alema e Vincenzo Visco dicono che sono avventurismi economici? Per Berlusconi sono «la nostra ricetta, che tutti conoscono»: l’unica in grado di indurre il paese alla resurrezione. Possibile? Realistica? Praticabile? Oppure l’enunciazione di una politica economica "by magic"? Nessuno fra gli economisti di tendenza ha ancora valutato il programma polista. A fondamento del manifesto politico di Forza Italia per ora c’è il sorriso di Berlusconi, quella straordinaria fiducia in se stesso che gli fa dire, con rimpianto compiaciuto: «Pensate a che cosa avrei potuto fare, in questi tempi di esplosione delle nuove tecnologie, al ruolo di protagonista che avrei potuto avere nella nuova economia mondiale». Anche nel glorioso e splendente 1994 andava così. Il milione di posti di lavoro era stato percepito dal fiuto dell’imprenditore ed evocato dalla fiducia che lui avrebbe suscitato nelle categorie. La "flat tax" di Antonio Martino era stata crivellata dagli esperti, ma il "penso positivo" era stato immediatamente realizzato con i provvedimenti di Tremonti sulla detassazione degli utili reinvestiti, che per la destra sono rimaste un totem indiscusso della politica del Polo e per gli economisti della sinistra anche liberal un esempio di misure "pro ciclitiche", superflue se non dannose. Insomma, tutta la macchina di persuasione di Berlusconi si basa sulla creazione di aspettative, garantite da lui medesimo in quanto eccezionale suscitatore di energie. Il Cavaliere sorride, promette un governo con personalità strabilianti, si propone come esempio di decoro istituzionale (come quando censura D’Alema per il suo impegno elettorale: «Quando ero a Palazzo Chigi, mi guardai bene dall’intervenire nella campagna elettorale europea», dimenticandosi che era candidato in tutte le circoscrizioni e che portò a casa tre milioni di voti). Sempre più sicuro, sempre più convinto. Ma anche convincente? D’Alema, nei suoi precordi, non sorride affatto: per lui i progetti berlusconiani restano «ricette miracoliste». Anzi, non si limita a non sorridere: digrigna. «In questo paese i dati non hanno molto successo». In sintesi, i dati, anzi, «i risultati straordinari» del centrosinistra, quelli che hanno tolto l’Italia dall’ingrato ruolo di «Cenerentola dell’Europa», sono un deficit all’1,9 per cento, la disoccupazione ridotta dello 0,5 (con l’opportunità di limare un ulteriore un per cento nel 2000), puntando al pareggio di bilancio nel 2003, anno in cui potrebbe verificarsi anche il riequilibrio del debito pubblico al livello del Pil. Retorica "boomish", irride Tremonti. Propaganda di regime, «uno scenario irreale, surreale», ironizzano Berlusconi e i berlusconiani. Secondo economisti del Polo come Antonio Marzano e Renato Brunetta i numeri dalemiani sarebbero frutto dell’oppressione fiscale. Per D’Alema invece il mini-boom è la premessa del miracolo grosso. Manca per la verità ancora un dato, quello della crescita: l’1,4 spuntato nel 1999 è banale, visto l’andamento caldo dell’economia mondiale. Ci vuole qualcosa di politicamente spendibile. Prima della sua malattia, Nino Andreatta lo aveva detto con la consueta verve provocatoria: «Per avere una chance politica abbiamo bisogno di una crescita al 4 per cento». Sembrava il libro dei sogni. Ma ora le cifre ufficiali prevedono per il 2000 un ritmo del 2 e mezzo. E le stime, o le aspettative, sembrano modificarsi al rialzo, anche in seguito all’impennata dell’ultimo trimestre dell’anno scorso. Il 3 per cento non appare più un miraggio. Se un manager carismatico come Marco Tronchetti Provera sostiene che la new economy favorisce l’adattabilità, l’inventività, la fantasia delle imprese italiane, se c’è un proliferare di nuove imprese anche nel Mezzogiorno, se anche il governatore Antonio Fazio abbandona le litanie su pensioni e flessibilità, e comincia a metterla sul positivo anche lui, perché porre limiti alla provvidenza? E vogliamo parlare dei mille fuochi di Borsa, del vorticare dei capital gain, del fervore del mercato attivato dalla Internet-euforia? Già, e allora dov’è il bug, per D’Alema e il centrosinistra? Perché ci dev’essere qualcosa che impedisce al governo e alla coalizione di piazzare sul tappeto l’atout della crescita, e di giocarsi per bene il miracolino annunciando l’arrivo del miracolone. Infatti, mentre il Cavaliere benedice e sorride, nell’alleanza di governo ci si accapiglia su tutto, dal tfr alle candidature, e alla selezione della premiership. E così il miracolino di avvio 2000, insieme con le promesse di restituzione del boom fiscale, soffoca tristemente fra le diatribe di coalizione. «Siamo degli specialisti dello spreco politico», si sente dire nel centrosinistra. Infatti, diaspore silenziose avvengono nei popolari verso Forza Italia; a sinistra della sinistra, Fausto Bertinotti insiste a richiedere misure fantapolitiche. Ma salvo trovate da cortile come le elezioni anticipate, c’è ancora un anno per disputarsi le spoglie del rilancio economico. In questo frattempo, riuscire a non argomentare pubblicamente in modo efficace una prestazione di successo sarebbe un miracolo nel miracolo. A rovescio, naturalmente. Certo, di imprese al contrario, anche nella sua storia recente, la sinistra ne ha già combinate tan- te. Ma oggi c’è una posta implicita in più. Perché chi mette le mani su "questo" miracolo è destinato a tenerselo stretto a lungo. Chi perde paga: e soprattutto pagherà per un’eternità, senza più sorrisi né aspettative di miracoli.

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