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Cento fotografi per fare l’Italia

23/10/2003

Queste foto le abbiamo già viste. Sono il portfolio di un’identità. Se non le abbiamo viste possiamo riconoscerle. C’è dentro la realtà profonda della storia (meglio, dell’esperienza) italiana dal 1943, a partire da quando Robert Capa fissa per sempre con l’obiettivo l’immagine di un soldatuzzu che smobilita in via privata, sullo sfondo di una Sicilia aspra e riarsa, con al suo fianco un’ausiliaria che gli conduce a mano la bicicletta da uomo, e tutti a casa. Le fotografie le ha raccolte una specialista come Giovanna Calvenzi, in un volume pubblicato da Contrasto. Si intitola semplicemente "Italia". sottotitolo: "Ritratto di un Paese in sessant’anni di fotografia". È una galleria della grande, vertiginosa trasformazione della nostra società. Ed è difficile aprire le pagine del volume senza avvertire una specie di involontario tuffo al cuore. Per la bellezza delle immagini, non c’è dubbio. Ma soprattutto perché la prima emozione viene procurata dalla contrapposizione immediata e violenta fra un’antropologia che appare ancora arcaica e un paesaggio che rimanda già i riflessi della società contemporanea. L’icona rivelatrice può essere lo scheletro di un aereo incenerito nella campagna laziale, fotografato da Federico Patellani, un relitto della tragedia mondiale osservato da una ragazza ciociara sdraiata sul prato; o la figura di una contadina che si staglia sul profilo apocalittico, sui crateri lunari di Montecassino; ma anche, sempre di Patellani, la distesa di teste che raffigurano con un forte contenuto anche simbolico e sociale, oltre che politico, la dimensione autenticamente sterminata della Milano post-bellica, con la folla ripresa dall’alto durante il comizio di Achille Grandi. Comincia subito a trasformarsi, l’Italia, e l’impressione è che cambino prima le persone che non gli ambienti, i luoghi, le case. Nelle vie e nelle piazzette di Trastevere raffigurate da Herbert List la gente sperimenta una sua prima modernità, negli abiti e negli atteggiamenti, mentre il porfido e le mura della città storica vengono a malapena segnate dai manifesti politici, dai manifesti che annunciano il comizio di Togliatti per la festa della Repubblica. A quel tempo l’Italia è effettivamente un paese, e un paese diviso. Al Nord sembra di assistere davvero ai primissimi passi di un’area europea, dove i treni e le Topolino sono l’indizio della grande immigrazione e di una industrializzazione tardiva quanto furibonda nei suoi ritmi e nelle sue conseguenze anche comportamentali: sicché ancora prima del miracolo economico le coppie fotografate nelle strade delle periferie mostrano qualcosa che ricorda nel bianco e nero della pellicola l’estetica popolare e radicalmente intellettuale di Ermanno Olmi. Mentre l’aula poverissima di una scuola nel Mezzogiorno rimanda l’immagine di un villaggio che si sta "nazionalizzando" con estrema fatica, riemergendo da una miseria secolare; il Sud è un catalogo irripetibile di marginalità maschili, con gli uomini che ballano fra loro, i cantastorie per strada, gli asini nelle vie di Corleone, i bambini che mimano con irresponsabile felicità e furente realismo una esecuzione a Palermo. E così le aree depresse, come il Delta padano e il Polesine, mostrano i volti e le radici materiali di un’Italia contadina che fa da controcanto implicito alle opere civili e alle prime infrastrutture moderne. Siamo ancora in quegli anni Cinquanta così ambigui, nel pieno della stabilità centrista, sbarcati i comunisti nel 1947 e goduto del Piano Marshall, che già prelude a qualcosa di politicamente diverso e inevitabilmente innovatore. Allorché nel 1958 Arno Hammacher immortala un operaio che sta lavorando sui ponteggi più alti del grattacielo Pirelli, la sua istantanea sembra rappresentare la cuspide del boom, esemplificato visivamente da un’epopea dei tubi Innocenti; ma a guardare con più attenzione, ciò che colpisce di più è il panorama della Milano che si disegna in basso durante quei venti mesi di crescita furibonda, ai tempi dell’Oscar delle monete per la lira. Perché è una Milano già moderna, proiettata verso il benessere, l’industria, la finanza, le sfilate di moda a cielo aperto e on the road in via della Spiga, con la folla che gode dell’eccitazione che si diffonde nell’aria. Miracolo. Il paese non si modernizza solo con l’Iri e con l’Eni, le partecipazioni statali, l’economia mista, Enrico Mattei e la tecnocrazia post-dossettiana. Cresce con la luce azzurrina della televisione, con tutta la città di Carpi che si raccoglie davanti al nuovo totem per assistere alle prestazioni del professor Degoli, l’"eroe del controfagotto" a "Lascia o raddoppia?". Osserva se stessa nella foto di Mario De Biasi che inquadra di spalle una specie di top model ante litteram, e inevitabilmente formosetta comme-il-faut, davanti a una schiera di operai e impiegati, fra biciclette, lambrette e il muso di un’utilitaria. E si rispecchia nella foto di Giovanna Falck, in cui si vedono gli operai delle acciaierie Falck, a Sesto San Giovanni, che sciamano di corsa fuori dalla fabbrica per la pausa pranzo, in una scena che è insieme fordista e paesana, antica e carica di una modernità impressionante. Come segnala Carlo Bertelli in uno dei saggi che accompagnano il volume, l’uso della macchina è concepito dai maestri contemporanei americani ed europei come un’"azione" che prosegue per intrinseca forza propria dopo lo scatto e lo sviluppo; mentre per gli italiani la fotografia è un evento "a lato" della realtà. Qual è allora il significato a suo modo politico della fotografia, «sottrazione, arresto, sosta», e quindi assenza di storia? Forse la storia si ricostruisce osservando queste interruzioni del flusso degli avvenimenti, quasi un lascito delle catastrofi meridiane della pittura metafisica, sistemandole una di seguito all’altra, ricomponendo così la successione storica. In questo modo, gli immigrati di Walter Battistessa alla Stazione centrale di Milano, con le valigie di cartone piene di arance e le irriducibili camicie fantasia, possono restituire un frammento di storia così come lo fanno le immagini di Aldo Bonasia che testimoniano con intrinseca urgenza lo scontro politico degli anni Settanta, o il postmoderno di Olivo Barbieri che iscrive una Citroën Ds nella cornice neoclassica di Sabbioneta; oppure anche una mimesi di Tomb Raider allo Smau di Milano, che mostra tutte le risonanze della globalizzazione techno. Eppure non è un caso che uno degli aspetti più significativi dei questa raccolta sia data dal confronto fra quegli artisti italiani e internazionali che si sono esercitati sugli stessi luoghi o su soggetti simili. Si può notare la nitidezza di Henri Cartier-Bresson nella raffigurazione degli esterni di Scanno in avvio di anni Cinquanta, mentre Mario Giacomelli negli stessi luoghi muove l’aria intorno alle persone, le soffonde di invenzione, perché «Scanno è un paese da favola, di gente semplice, dove è bello il contrasto fra mucche, galline e persone; tra strade bianche e figure nere, tra bianche mura e neri mantelli». Allo stesso modo è suggestivo il confronto fra Paul Strand e Gianni Berengo Gardin. Si ricorderà che Strand, fotografo già celebre a livello internazionale, aveva conosciuto nel 1949 Cesare Zavattini, e gli aveva proposto di collaborare alla realizzazione di un volume su un paese italiano «nel quale sopravvivessero consuetudini e ritmi legati alla terra e alla natura». La scelta era caduta sul paese natale di Zavattini, Luzzara, e il volume che ne uscì, «una sorta di Antologia di Spoon River visiva», divenne una sorta di libro di culto, in parte poema fotografico, in parte «spaccato di storia locale». Più tardi Berengo Gardin raccolse la sfida del confronto, e ripercorse le orme di Strand ("Un paese vent’anni dopo"): «Strand racconta Luzzara attraverso l’analisi attenta dei visi e delle cose, Berengo racconta il paese attraverso la vita e gli ambienti, e le due visioni, lontane e parimenti emozionanti, concorrono a fissare nel tempo un microcosmo». Altre suggestioni si possono trarre dal confronto fra William Klein e Mario Carrieri, fra gli "asylums" manicomiali di Carla Cerati e Raymond Depardon, fra la Sicilia marinara ed epica di Sebastião Salgado e la rivisitazione che ne ha fatto nei suoi exploit Giorgia Fiorio. Ma proprio perché ciascuno di noi può riconoscersi in queste fotografie, può riconoscere luoghi, fabbriche, manifestazioni pubbliche, reliquie religiose o reperti di superstizione, fondali di teatro-verità, scene di vita quotidiana, paragone fra il passato e il presente, si capisce anche che l’intenzione di questo libro è assai più sottile di quanto solitamente traspare dalle raccolte fotografiche più o meno accademiche, più o meno di maniera. Alla fine si tratta di fare i conti con la realtà, con la vertigine del cambiamento di un paese e della sua gente. Eppure in background c’è un problema di secondo livello, che consiste nel fare i conti con la tradizione realista, con il suo acme raggiunto durante il neorealismo. È una scommessa culturale impegnativa, che mentre parla di noi ci parla della fotografia, di un’arte applicata, e di come si riproduce, distorce, manipola il dato apparentemente oggettivo dell’immagine. Per raccontare come siamo, come siamo stati, e soprattutto come abbiamo creduto di essere.

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