Qualcuno a Palazzo Madama ci scherza sopra, cercando corsi e ricorsi storici: ci sono ancora da qualche parte gli straccioni di Valmy? I «quattro gatti» di Francesco Cossiga? Tira davvero aria di ribaltino come nell’ottobre nero di Romano Prodi nel 1998, di allargamento della maggioranza, di governo istituzionale, di qualsiasi ipotesi che possa tenere in vita questa legislatura ormai a brandelli? Il grande pasticcio dell’Unione era nell’aria. Bastava frequentare anche solo di sfuggita il Senato per sapere che tutti aspettavano soltanto il momento in cui qualcuno avrebbe staccato la spina. Eppure, sul Falcon che mercoledì a mezzogiorno riportava a Roma i ministri Arturo Parisi e Giulio Santagata dopo l’incontro a Bologna con il presidente Napolitano, niente lasciava prevedere il dramma del governo. Attesa del risultato del voto al Senato, ma sostanziale serenità. Adesso che invece il momento infernale è arrivato, facce impietrite, sguardi attoniti, occhiate sperdute. E una singolare atmosfera da prima Repubblica, ipotizzando che il Quirinale potesse rimandare il governo davanti alle Camere, per accertare se ha una maggioranza. Il ragionamento, nel pomeriggio dopo la caduta diceva: calma e gesso. Un passo alla volta. Raffreddare la situazione. Ma la strada sembrava troppo tortuosa. Inutile tentare di ricompattare l’Unione con un voto di fiducia, come volevano nella sinistra radicale Diliberto, Pecoraro Scanio e Giordano, per poi dover affrontare una nuova lotteria su uno dei temi caldi, a cominciare dal rifinanziamento della missione in Afghanistan. Vero che, secondo i dettami del passato, è meglio tirare a campare che tirare le cuoia, secondo la classica espressione di Giulio Andreotti: proprio lui, la vecchia volpe democristiana e cattolica che insieme al senatore a vita Pininfarina ha sotterrato il governo di centrosinistra, con una vendetta freddamente cerebrale (che alcuni senatori di vecchia scuola fanno risalire alla mortificante trombatura subita nell’elezione alla presidenza del Senato). Mettiamola così: in astratto, secondo i manuali di diritto costituzionale, da un punto di vista strettamente tecnico, la caduta del governo sulla politica estera sarebbe stata forse recuperabile. Non si capisce infatti chi nell’Unione abbia davvero un interesse razionale a fare cadere la legislatura, o peggio ad aprire una fase di larghe intese, che implicherebbe il taglio chirurgico della sinistra oltranzista. Anche perché oggi a sinistra il radicalismo non è consegnato esclusivamente a un solo partito, e quindi è impossibile pensare a una legislatura-trapianto, con l’Udc a sostituire dal centro il taglio dell’estrema. Il fatto è che l’Unione era nata con un accordo complesso, formalizzato dettagliatamente dal programma, e quindi senza prevedere eccezioni possibili alle decisioni del governo. Si potevano ipotizzare contrasti da superare attraverso mediazioni defatiganti, ma non lo choc della dissidenza assoluta, tale da fare mancare i numeri al Senato. Adesso, dopo il patatrac del fatale 21 febbraio, tutto entra nuovamente in discussione. Vale a dire: ammesso che sia possibile ricucire per via parlamentare lo strappo, esiste una possibilità, che sia una, di assicurare la continuità dell’esperienza di governo del centrosinistra? Sotto questo profilo, le valutazioni tendono al pessimismo. È venuta alla luce tutta la fragilità di una coalizione debole e di una maggioranza strettissima, che nei mesi di durata del governo Prodi non è riuscita a guadagnare un solo voto di consenso dalle frange non berlusconiane del centrodestra. La maggioranza sarà anche stata «sexy», secondo l’ottimismo di Prodi, ma non ha retto alla prova dei fatti. Il centrosinistra paga così, e a prezzo carissimo, l’illusione dell’autosufficienza. Quel senso di sicurezza che aveva indotto l’Unione a non cercare accordi durante l’elezione delle principali cariche istituzionali. La convinzione che oltre il governo dell’Unione c’era soltanto il salto nel buio, cioè il Paese consegnato di nuovo a Silvio Berlusconi. Quella sensazione riassumibile nell’alternativa "dopo di noi il diluvio" che aveva indotto anche Massimo D’Alema alla forzatura: «Se sulla politica estera non c’è la maggioranza si va a casa». Accontentato, la maggioranza non c’è. E in aggiunta si tratta di vedere se c’è ancora la coalizione di centrosinistra. Perché non è affatto detto che la nuvola nera addensatasi sull’Unione si esaurisca in un acquazzone: il rischio è che l’incidente frontale sulla politica estera abbia recitato il de profundis sull’alleanza di centrosinistra, sul suo formato, sulle premesse politiche su cui si era formata. Ammettiamo pure che il contraccolpo della caduta al Senato possa essere ammorbidito da un processo di ricomposizione e dal tentativo di un modesto allargamento della maggioranza. Si possono immaginare consultazioni del Quirinale, contatti con cani sciolti del centrodestra, trattative, forse un Prodi bis che tenti di governare la crisi mantenendo intatta il più possibile la maggioranza uscita dal confronto elettorale del 2006. Ma se questo non fosse possibile, prima di arrivare alle elezioni sarebbe ipotizzabile soltanto un governo tecnico-istituzionale. E in questo caso per la politica italiana si aprirebbero scenari potenzialmente sconvolgenti. Il fallimento strutturale dell’esperienza di centrosinistra, perché di questo si tratta, la fine eventuale dell’"alleanza larga" voluta da Prodi, estesa dal centro all’estrema sinistra come strumento per il confronto bipolare con la Casa delle libertà, innescherebbe infatti una specie di Big bang, tale da modificare in profondità tutto il sistema politico. Il partito democratico, su cui in aprile si aprirà un confronto fra i Ds dagli esiti non del tutto scontati, potrebbe apparire fra poche settimane un’ipotesi irrealistica rispetto alla fase politica in atto. La dimostrazione sul campo che non c’è una possibilità di convivenza con la sinistra radicale può indurre i centristi dell’Unione, dall’Udeur di Clemente Mastella alla Margherita, ad allargare la partita delle alleanze. Mani libere, quindi. Per tutti. Con effetti virtualmente distruttivi sul sistema bipolare. Massimo D’Alema lo aveva detto: è in atto una manovra neocentrista. Con ciò che si può immaginare alle spalle delle larghe intese: i poteri forti, settori confindustriali, il mondo dell’economia ostile alla sinistra, ambienti cattolici. Ma nella realtà non c’era nessuna manovra effettiva. C’era semmai la volatilità della maggioranza al Senato e il masochismo, o più precisamente l’impossibilità ad assumersi l’onere del governo, di elementi sparsi nella sinistra. Per il centrosinistra, creato sull’opposizione alla destra, c’è anche la frustrazione aggiuntiva di osservare che Berlusconi ha vinto una battaglia campale senza averla nemmeno combattuta. Sono mesi che i leader dell’Unione, in caduta libera nei sondaggi dopo il varo della legge finanziaria, sostengono che alla lunga la qualità del governo avrebbe consentito un recupero significativo di consenso. Ma nel frattempo il centrosinistra era un rodeo, con liti, conflitti, strappi, risse. La guerra interna sulle unioni di fatto, Vicenza, l’Afghanistan. E, accanto al buon andamento dell’economia reale, il pasticcio della redistribuzione mancata (con le addizionali delle regioni e dei comuni che hanno spesso annullato il ridisegno delle aliquote a favore dei ceti meno abbienti). Il crollo al Senato non ha fatto che mettere allo scoperto la fragilità di un’alleanza che invece avrebbe avuto bisogno di linearità, compattezza e consenso su cui galleggiare. Tutto questo porta verosimilmente in una sola direzione: verso un periodo di grande confusione. Quel tanto di razionalità anche forzosa introdotta dalle regole ferree del confronto bipolare, pur con tutti i suoi difetti e le sue approssimazioni, può lasciare spazio a una terra di nessuno in cui gli approdi sono indefiniti. E in cui l’unica certezza è che tutte le manovre sono praticabili. n
01/03/2007