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C’era una volta Lupetto Benni

01/11/2001

Superati i cinquant’anni agli scrittori italiani, compreso il versatile bolognese Stefano Benni, viene voglia di scrivere l’autobiografia. Subito dopo, fanno le smorfie per non mostrare di scriverla: compreso il ritroso Benni. Il quale, anche se non lo mettono nelle grandi raccolte del racconto italiano, tipo i tre Meridiani di Enzo Siciliano, è comunque uno scrittore dal talento micidiale, e per evitare di scrivere la storia della sua vita l’ha trasformata direttamente nel suo ultimo romanzo, che si chiama "Saltatempo" ed è stato pubblicato come al solito da Feltrinelli. Ineluttabile successo di pubblico, perché Benni, come il "ragazzo mucca" Michele Serra, ha una sua tribù di idolatri, che ogni anno e a ogni libro lo portano in processione come la Madonna pellegrina della sinistra al tramonto. Quanto alla critica, bah. Per fuggire dall’autobiografia Benni si è inventato una storia forse rabelesiana, e cioè che al se stesso ragazzino appare un enorme e puzzolente dio pagano, che gli regala un orologio supplementare, un "orobilogio", cioè un orologio doppio, che gli permetterà di saltabeccare nel tempo e di vedere il futuro. L’invenzione più che altro incasina la storia. Ma Benni deve avere pensato che per essere riconosciuto finalmente come grande scrittore deve insistere sul lato favolistico, sulla vena lunatica e bizzarra, sacrificando un po’ lo humour alla bolognese che gli viene così bene: e quindi ha organizzato una storia che comincia laggiù, in quegli anni Cinquanta, quando una qualche valle sopra Bologna è effettivamente ancora una terra di prodigi, di miracoli contadini, di prodezze da caffè: e il paese è un catalogo di caratteri tipicamente locali e quindi universali, insomma "glocal" come si direbbe saltando nel tempo con l’orobilogio. Ma l’invenzione gratuita serve a Benni per dimostrare che a dispetto di tutto lui una sua coscienza sociale e politica ce l’aveva fin da allora, e quindi il superfluo orobilogio è invece utile per incrociare il Che Guevara e Elvis Presley, per prevedere il degrado cementizio della sua valle, il capitalismo galoppante, la corruzione, la speculazione, le frane che si portano via mezzo paese; e anche per presentire la strage di piazza Fontana, e per partecipare al maggio francese, con l’euforia irresistibile di trovarsi a Parigi nel maggio ’68 in un clima talmente artistico che anche le merde di cane «mi sembravano pennellate impressioniste». E vabbè, Parigi è una parentesi: nella storia di paese saremmo dalle parti di "Mondo piccolo" e di Macondo, fra un Guareschi scafato e un García Márquez padano, schivando qualche trappola di Pennac con la consapevolezza istintivamente politica e poetica «che anche noi eravamo pesciolini e da un momento all’altro una grande pietra poteva calare sulla nostra vita». E con la conclusione inevitabile, che in fondo è una premessa ideologica ed esistenziale: «Capii che nella vita non volevo diventare come certe persone, e avrei cercato con tutta la mia forza di essere come certe altre». Solo che Benni non si accontenta di farcire ogni paragrafo di invenzioni lessicali e trovate che fanno impallidire la creatività media degli autori da classifica non solo italiani («Qua è come pulirsi il culo a revolverate», per dire del masochismo, o dell’inadeguatezza). E non si placa nemmeno dopo che in ogni occasione ha infilato la sua digressione da ragazzo da Bar Sport, i suoi exploit surreali o iperrealisti: il che basterebbe a un autore fiduciosamente sopravvalutato e implicitamente pipparolo come Nick Hornby per andare a nascondersi. No, il Benni furioso e favolistico sente anche il bisogno di popolare le sue storie di gnomi, elfi, nanetti, cani umanizzati. Non gli bastava la piccola epopea del papà comunista, dello zio illuminista, del sindaco canaglia, del farmacista e del medico proto-gay, delle generose donne del paese, dei compagni di scuola che finiranno a fare i chitarristi nella band internazionale degli "Scrapers" o che faranno i milioni brevettando una macchina pelagalline. Non bastava neanche la storia d’amore con la ragazza Selene, figlia di compaesani inurbati, che attraversa tutto il romanzo, e che per amore gli rifà clamorosamente lo strip sulle note di "Quarantaquattro gatti" (perché la radio al momento non passa di meglio). Ci voleva la dimensione mitica. Con tutta la mitologia, però, qualcosa si perde. Perché proiettata nei cieli di Propp, la storia di Benni si confonde con il fantasy e il sorcery, mentre la sua dote principale sarebbe una felliniana capacità di fare dell’amarcord sui tipi umani (la galleria dei maestri e dei professori, dei frequentatori del caffè, dei colleghi nel giornale di provincia che lo istruiscono sul giornalismo). Se la deve essere presa, Benni. Ah sì? Non mi mettete nelle antologie, nelle storie della letteratura, nel canone italiano? Padronissimi: e io vi frego creando una specie di presepio infinito, una storia circolare come quella di "c’era una volta un re, che disse alla sua serva". Una romanzeria popolare, ammesso che ci sia ancora il popolo. Benni si impegna a crederci, che il popolo c’è. Un popolo disposto ad accettare che il protagonista di un racconto contemporaneo possa chiamarsi Lupetto e prendere il nome di Saltatempo, e a trasformare la politica in alluvionale affabulazione. Una favola in cui il protagonista è uno qualunque, anarchico quanto basta, né figo né sfigato, anche se «ero brutto: pieno di brufoli di ogni colore e forma, cuspidati, col craterino, a fico spremuto, a capezzolo…». Tanto ironicamente brutto, con il naso adunco e i capelli irti, che «tutte le volte che sorridevo a una principessa, quella cercava rifugio presso il drago». Eppure la bruttezza del bambino si incarna nella voracità anarchica dell’adolescente e del giovane che scopre le città, le discoteche, il sesso, le tortuosità del potere: sempre con uno sguardo leggermente attonito, come se il mondo fosse qualche cosa di inafferrabile. Scopre le donne e la loro logica diversa, si infila in comici collettivi politici di estrema sinistra dove tutti si accusano a vicenda di deviazionismo di destra. Si accorge alla fine che il suo paese è «sospeso fra due età», in attesa di diventare definitivamente un non-luogo come tutti gli altri. Respinge l’intimismo di Michele Serra, l’elaborazione del lutto di Nanni Moretti. Della triade ufficiale della sinistra creativa, Benni è l’unico ad avere ancora voglia di buttarsi golosamente nelle cose. Avesse avuto il rigore di eliminare, discernere, aspettare, tagliare, eliminare i cali di ritmo e le ridondanze, forse saremmo qui a parlare di un nuovo Luigi Meneghello. Siccome non ha pazienza, resta il divertimento country, matto e sconclusionato, solo qua e là irresistibile, del solito capolavoro sfiorato.

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