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che palla il campionato

31/07/2008

Benvenuti, bentornati. Il pallone è di nuovo tra noi, i giocatori pure. Ah, che piacere. Fra poco si avvia il campionato d’agosto, quello delle illusioni; scenderanno in campo le squadre per i preliminari di Champions League, e ripartirà anche il campionato di serie A vero e proprio, il più bello del mondo… Sì, buonanotte: il torneo calcistico italiano era già stato declassato da tempo a "più difficile". Adesso tira un venticello maligno, che sussurra come il campionato domestico sia precipitato giù, dietro quello inglese, più sotto di quello spagnolo. Basta guardare la composizione delle squadre, dove abbondano i contratti con giocatori matusalemme, bravi vecchioni che avrebbero buone opportunità di spendere le ultime energie nelle serie minori, atleti logori e rabberciati che invece s’impegnano allo spasimo per lucrare l’ultimo contratto nella massima divisione. È questo il grande spettacolo offerto dal calcio italiano? Innanzitutto sarà il caso di intendersi. Il calcio nazionale è stato miracolato dalla vittoria nel mondiale a Berlino due anni fa. La spedizione guidata da Marcello Lippi usciva da Calciopoli, si temprò nella bufera, divenne un gruppo inscalfibile e riuscì a battere squadre teoricamente più quotate, fino alla vittoria ai rigori contro la Francia, nella partita passata alla storia per la testata di Zidane a Materazzi (la signora Betancourt faceva meglio a stare zitta, invece di dire l’eterea sciocchezza secondo cui aveva «adorato» quel colpo di testa). Invece, la verifica dei campionati europei è stata particolarmente impietosa. Una squadra vecchia, piena di bamboccioni tatuati, capace di far giocare male tutti gli avversari, anche gli spagnoli che avrebbero meritatamente vinto il torneo continentale, ma incapace di giocare bene, di concludere, di segnare. Un allenatore probabilmente bravo ma vicino alla sfera dell’incomunicabilità, come Roberto Donadoni, comunque non portato a suscitare entusiasmi dentro e fuori la squadra, anzi, a portarla dentro un film di Antonioni, «mister, mi fanno male i capelli». Una compagnia di assi e fuoriclasse giudicati tali nelle squadre di appartenenza ma non in grado di confermarsi sul piano internazionale, fino al punto di suscitare discussioni metafisiche: sono scarsi loro o è scarso il campionato in cui eccellono? Vabbè che il calcio non è quasi mai una cosa seria, e in quanto tale lo si può prendere sul serio solo scherzandoci sopra. Perché o si è tifosi accaniti, vicini al lessico e all’immaginario degli ultras; oppure si ama il calcio come oggetto di accademia "discutidora", senza integralismi. E senza fissazioni manualistiche o documentarie: per esempio, si può sostenere che nella rosa delle quattro semifinaliste agli Europei non c’era un solo atleta che giocasse nel campionato italiano. Vero o falso? Ma intanto è un’ottimo punto di partenza per sostenere la tesi che il campionato italiano è al disarmo: squadre decotte, stadi vecchi e brutti, diritti televisivi che hanno oscurato la serie B, riducendola a un campionato provinciale e senza pubblico, dirigenti pasticcioni, bufale e bidoni in andata e ritorno, partite arrangiate come sempre, con torte e biscotti qua e là. Bellissimo clima, si potrebbe obiettare, molto simile agli anni Sessanta, quando governavano, con rotoli di banconote, i "ricchi scemi". Un tuffo negli anni Sessanta, un revival. Per un Mourinho che viene, un Adriano che torna. Il tecnico portoghese, «the special one» per autodefinizione, professionista assoluto ed euclideo, promette di dare un contributo fantastico alle discussioni: sotto il profilo politico perché dicono che sia un uomo di destra, anzi qualcuno sostiene che sia un salazarista convinto, cioè un perfetto reazionario; sul piano tecnico perché ha tutta l’aria di essere un teoreta sublime, uno di quegli astratti filosofi del gioco schematizzato che tendono a considerare il pallone, sotto sotto, come un fastidioso inconveniente rispetto alla perfezione dei moduli e dei movimenti, e chissà come godrebbero a eliminarlo del tutto, o almeno a sostituirlo con una palla quadrata. Per questo non si sa come Mourinho inquadrerà il neoacquisto Amantino Mancini, brasiliano "de Roma", che non solo ha il cognome del suo predecessore sulla panchina dell’Inter, ma ha anche l’abitudine alla finta e al dribbling, anzi alla "pedalada", un gesto che probabilmente il tecnico portoghese detesta dal profondo del cuore (ammesso che Mourinho un cuore ce l’abbia). Quanto all’interista Adriano, il centravanti brasilero che doveva sfondare il mondo e a un certo punto era divenuto più noto per il numero di lattine di birra mediamente seccate in una nottata che non per il numero dei gol realizzati, è la punta di diamante, si fa per dire, di una delegazione brasiliana che sembra destinata a rinverdire patetismi carioca, promesse di impegno e saudade senza rimedio. Al di là di Kakà, campione assoluto del Milan, richiestissimo dalle migliori società europee con offerte praticamente folli, dei brasiliani non se ne può praticamente più. Il decantatissimo Pato, l’adolescente "papero" del Milan con l’apparecchio per i denti, è stato precocemente ridimensionato da star globale a discreta promessa: figura nelle formazioni base come punta centrale del Milan berlusconiano (ma se le cose si mettessero male, per il ragazzino che fa con le dita il simbolo del cuore, poverino, quando segna, c’è sempre pronto l’irriducibile vecchiaccio Pippo Inzaghi); alle spalle, il sullodato Kakà e il neoarrivato Ronaldinho, altra scommessa su un campione esausto, che il Milan Lab dovrà rimettere in sesto e Carletto Ancelotti proverà a rimettere in forma anche mentale, in modo che possa ritornare a essere il cartone animato imprendibile, il "Bip Bip" dei primi tempi al Barcellona. Ma il calcio contemporaneo è insieme mediocre e spietato. Lo si è visto per esempio con Ronaldo, controfigura di se stesso, divenuto un ex mentre era ancora sul campo, per poi finire in storie di viados e di vacanze. Sicché si tratterà di vedere se le tante chiacchiere spese per presentare con i colori dei fuoriclasse i nostri attaccanti, dal reduce Cassano al sempre vivo Del Piero, servono davvero a descrivere la realtà o un sogno (sia l’uno sia l’altro, agli europei, hanno giocato sul filo della mediocrità). In ogni caso è già scritto che il campionato è una partita a quattro: Inter, Milan, Juventus e Roma. E questo è già un motivo intrinseco di noia. Sarebbe divertente se almeno nel girone d’andata venisse fuori una sorpresina, una Fiorentina: perché Cesare Prandelli è un allenatore capace di valorizzare i suoi uomini, e anche di rigenerare il povero Gilardino, che in pochi anni al Milan è passato dalla categoria di grande goleador a quella di attaccante nevrotizzato: se Prandelli riesce a far tornare in spolvero l’ex milanista, se Mutu si farà ancora sentire, la Fiorentina farà male a tutti, con grande gioia di chi ama gli outsider. Altrimenti prepariamoci a un campionato noiosissimo e scadente, con pochi spettatori sugli spalti e le televisioni che intanto inneggiano, "et pour cause", a un gioco straordinario. C’è una distanza siderale, insomma, fra le idee e la realtà. Forse, anche per il calcio italiano è il caso di lasciare le presunte stelle nel loro cielo, e di tornare con i piedi per terra. n

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