gli articoli L'Espresso/

Ci vediamo in Afghanistan

08/03/2007

Si trattava di una crisi "cluster", cioè una crisi a grappolo: una crisi a cui è legata un’altra crisi, e poi un’altra ancora, con un possibile effetto finale di implosione potenzialmente fatale. La crisi di governo comportava una crisi di sistema politico, nel senso che la caduta del governo avrebbe portato con ogni probabilità alla fine del modulo bipolare. Sullo sfondo c’era la crisi dell’alleanza politica di centrosinistra, con l’emergere di una implicita crisi di leadership. L’insieme di questi fattori distruttivi metteva a rischio il processo che conduce al Partito democratico, e la collocazione in area governativa di Rifondazione comunista, voluta da Fausto Bertinotti. Un effetto domino più simile a un incubo che a un problema politico. La fiducia equivale al ritorno a una realtà irta di difficoltà ma un passo indietro rispetto all’abisso. Dunque: il governo Prodi rappresenta il sottilissimo diaframma che finora ha impedito che nella politica italiana dilagasse l’ondata di ritorno alla prima Repubblica, mentre incombono altre burrasche. L’Afghanistan, le pensioni, i Dico; e poi la legge elettorale, le liberalizzazioni, la Tav. Un intero programma, selezionato in base alle tavole del dodecalogo di Romano Prodi, da affrontare con la maggioranza "risicata", come si diceva nei primi 281 giorni di governo, e poi con la maggioranza "ipotetica", raccolta dopo il tonfo sulla politica estera. Fossimo all’inizio della legislatura, ancora sotto la spinta, e il sospiro di sollievo, della pur ristrettissima affermazione elettorale, verrebbe buono quanto si diceva dentro lo staff prodiano, tra i fedelissimi del presidente del consiglio, i Santagata, i De Giovanni, i Levi: «Dobbiamo governare così bene da essere sostenuti dal consenso popolare, in modo che il sostegno dell’opinione pubblica supplisca ai numeri deficitari del Senato». Oggi sembrano le ultime parole famose: il governo ha cominciato a giocarsi il favore dell’elettorato con l’inciampo sui tassisti dopo il favore raccolto dalle prime liberalizzazioni di Pier Luigi Bersani; è precipitato sulla farragine della legge finanziaria; ha subito il colpo di grazia quando si è visto che le buste paga di gennaio non portavano grandi tracce della redistribuzione a favore dei ceti più deboli, e mentre raffiche di aumenti di tariffe nei servizi, con annunci quotidiani di addizionali locali sull’Irpef, facevano di tutto per smentire il programma dell’Unione. «Proveremo a rimettere il dentifricio nel tubetto», aveva detto e ripetuto Prodi in campagna elettorale, alludendo al tentativo di restituire potere d’acquisto alle fasce sociali penalizzate dai cinque anni di governo del centrodestra. Nella realtà, il vertiginoso volume della Finanziaria si era risolto in una robusta operazione di risanamento dei conti pubblici, senza però che i cittadini ne traessero un beneficio diretto. «L’idea era di fare subito il lavoraccio sui conti», commenta Enrico Letta, «nella speranza di passare poi alla rimessa in efficienza del paese e a una crescita sostenuta». Un’illusione? Di sicuro, prima dello schianto in Senato, si era avuta la revoca della fiducia da parte dell’opinione pubblica. Sondaggi a precipizio. Rivalutazione postuma del governo Berlusconi, a dispetto di cinque anni di crescita vicina allo zero, e di una quantità di buchi lasciati nell’amministrazione pubblica. Con il paradosso generato da misure "per lo sviluppo" (come il taglio del cuneo fiscale alle imprese) intascate dalla Confindustria come un atto dovuto, senza acquisire il minimo consenso. Quindi dopo nove mesi di governo dell’Unione, il punto centrale della crisi rabberciata sul filo dello psicodramma diventa tutto politico. Il programma, le priorità, le lenzuolate liberalizzatrici sono finite sullo sfondo. Ciò che conta è che il governo e la maggioranza devono tenere. Quindi le prossime settimane saranno allo spasimo. Perché il governo Prodi non ha alternative. O meglio. Tutte le alternative possono rappresentare lo sfaldamento del sistema. Cominciamo dall’alternativa numero uno: il governo tecnico con la missione di realizzare la nuova legge elettorale. È l’ipotesi che piace a tutti coloro, a cominciare da Pier Ferdinando Casini, che non nascondono la volontà di scomporre e ricomporre gli schieramenti, per ristrutturare, come dice l’altro centrista Bruno Tabacci, «un bipolarismo fallimentare». Il governo tecnico o istituzionale ha già da tempo una figura di riferimento, l’attuale presidente del Senato Franco Marini. Ma contiene in sé anche una colonia di germi patogeni. Infatti il ricorso a un governo di emergenza rappresenterebbe il fallimento dell’Unione, e la sua probabile disarticolazione. È improbabile che infatti la sinistra radicale accetti di partecipare a un esecutivo trasversale. Inoltre il governo tecnico contiene altre incognite, perché consegnerebbe a Silvio Berlusconi una specie di diritto di sfascio, con la possibilità di fare saltare il tavolo nel momento per lui più opportuno, trascinando con sé, volenti o nolenti, gli alleati. Ed è chiaro che un governo tecnico rappresenta la premessa per ridisegnare il formato stesso della politica italiana. Già si parla, sulla scia di una formula di proporzionale con sbarramento alla tedesca, della formazione di alcune grandi aree "omogenee": la destra nazionale, il centro, la sinistra riformista, la sinistra radicale. Con il risultato prevedibile di governi negoziati dopo le elezioni, di alleanze e manovre tattiche fra aggregazioni parlamentari fisiologicamente fluide. Oppure con l’occupazione permanente dell’area della governabilità da parte di una coalizione stabile di centro-centrosinistra (con il taglio delle ali). Benché il presidente Napolitano, rinviando Prodi alle Camere, abbia già prospettato il ricorso al governo tecnico-istituzionale nel caso di un collasso parlamentare dell’Unione, è più probabile che in questa fase si assista a lente manovre sotto l’ombrello del governo Prodi. È lo schema su cui si è mosso Marco Follini spostando il suo voto al Senato a favore del governo. Vale a dire: l’allargamento della maggioranza a forze centriste si è dimostrato impossibile. Ma nei prossimi mesi si tratterà di decidere se è necessaria una ristrutturazione profonda dell’alleanza di governo. «Occorre un altro centrosinistra», ha detto Follini durante la crisi di governo. Ciò significa che l’allargamento della maggioranza di centrosinistra è comunque necessario, e non soltanto per una questione numerica. Ma un’ipotesi del genere può essere visto da Rifondazione comunista e dagli altri partiti della sinistra oltranzista come una minaccia. Potrebbe implicare uno spacchettamento di un ampio arco parlamentare, interessando un’area che va da una parte di Forza Italia a una parte dei Ds. Inoltre, chi sarebbero i possibili gestori di questa sostituzione del motore della politica italiana? C’è un indiziato, Massimo D’Alema, dimostratosi aperturista sul modello elettorale tedesco. C’è Francesco Rutelli, che presidia il centro dell’Unione. Ci sono pontieri possibili con l’Udc come Clemente Mastella. C’è uno spirito democristiano sparso qua e là ancora alla ricerca di un’incarnazione. E infine c’è Prodi. È vero che nella sua storia politica è sempre stato fedele alla formula bipolare (come dimostra la sua caduta nel 1998). Ma è altrettanto vero che non può consegnare se stesso a un fallimento totale e irrimediabile. Per questo, nel suo sintetico discorso di martedì pomeriggio al Senato ha equilibrato i toni, rivolgendosi a ogni partito della maggioranza per ricordare i provvedimenti in sintonia con le componenti politiche dell’Unione, ed evitando le polemiche con l’opposizione. Anzi, ha sottolineato la necessità della convergenza sulla legge elettorale e le riforme istituzionali. Prodi sa che ogni allargamento della maggioranza può determinare contraccolpi dentro l’Unione. Ma sa anche che deve cercare di salvare il salvabile. Mentre ricomincia una complicata navigazione a vista, Prodi deve ricordare che non è soltanto il capo del governo, ma anche il coordinatore di uno schieramento politico. Perché per evitare gli scogli non basta il tecnocrate: d’ora in avanti ci vuole il manovratore politico. n

Facebook Twitter Google Email Email