Non è soltanto una categoria della politica. Richiama geometrie euclidee, un’occulta razionalità scientifica; evoca sentimenti del passato e li sublima in un uno sfumato progetto politico per il futuro. È il centro. L’ectoplasma che turba da sempre Romano Prodi; che Massimo D’Alema ha evocato come una macchinazione contro il governo. Quel centro che solleva nostalgie tali da far vibrare l’animo di chi ha ricominciato a guardare senza complessi alla prima Repubblica. Per Ciriaco De Mita, massimo esegeta della "vieille cuisine" politica, il centro non è un partito, e neppure uno schieramento: «È lo spazio della politica possibile». Lasciando intendere che per un dc di lungo corso la politica praticabile non si incarna necessariamente in soggetti prefissati. Si realizza con una serie di spinte e controspinte, fra alleanze continuamente modificabili, con quella dote manovriera che rese l’Italia un sudoku ante litteram. Era uno dei calembour preferiti dal compianto Nino Andreatta, quando il «dilettante» Silvio Berlusconi esecrava propagandisticamente l’instabilità dei governi: «Ma quale instabilità. Il governo rimaneva sempre lo stesso. Quelli che cambiavano erano soltanto i ministri». Già, ma adesso? Dov’è il centro dopo quasi un quindicennio di bipolarismo, dopo le formule maggioritarie inesorabili, "si vota di qua o di là", dopo il faccia a faccia tra due antropologie incomunicabili? Nelle nostalgie democristiane di Pippo Baudo e di Katia Ricciarelli, di cui non si dimenticano i trascorsi a favore della sfortunata esperienza di Sergio D’Antoni, quel partito denominato Democrazia europea che nasceva proprio per scomporre i poli? Oppure, guardando a ritroso, nell’insofferenza per le formule politiciste che riuniva l’establishment dietro i sublimi cinismi di Gianni Agnelli? Nel pragmatismo così disincantato di Guido Carli, testardo sostenitore di risanamenti da perseguire come ministro di Giulio Andreotti? Il centro viene da lontano. È la formula risolutiva e imprendibile che potrebbe, con il condizionale di rigore, sistemare tutti i tasselli del puzzle italiano. Con il Cavaliere bianco che appare come in un film epico, el Cid Campeador contemplante un panorama di macerie, partiti frammentati, politiche farraginose, conflitti esplosivi e striscianti, e con un colpo di spada taglia le ali, fa fuori i fondamentalisti, i comunisti, i secessionisti, gli irriducibili di qualsiasi parte e chiama i volonterosi a occupare lo spazio, per l’appunto, dell’unica politica possibile. Un’idea sovrana: ci sono riforme irrinunciabili e non rinviabili che accomunano le persone di buon senso e buona volontà, alloggiate a destra come a sinistra, nella Cdl come nell’Unione. Soltanto una fissazione culturale, un ideologismo sviluppatosi in astrazioni, impedisce che questi italiani si raccolgano nel governo delle cose possibili. Un’idea neodemocristiana? Non solo. A esporla in pubblico, per la verità, è stato uno dei grandi tecnici, l’economista Mario Monti, una figura di profilo europeo, proprio mentre destra e sinistra si apprestavano al duello fatale delle elezioni del 2006, quelle dell’Italia "spezzata". Per prenderla sul serio, occorre considerare due premesse. La prima dice: il bipolarismo è fallito. Come aveva detto una volta l’udc più a destra, l’anticasiniano Carlo Giovanardi, conversando con il teorizzatore del Partito democratico, il liberal Michele Salvati: «In questo paese è sempre stato difficile scremare una classe dirigente; e voi vorreste trovarne addirittura due, una di destra e una di sinistra…». Non troppo diverso, si parva licet, dalle boutade ironiche di Alberto Arbasino nelle sue letterine ai giornali, dai suoi esercizi di scetticismo, dai suoi raffinati esorcismi su pensieri nuovi che si rivelano vecchissimi e su idee «epocali» dettate da convenienze del momento. Come seconda premessa va preso il paradosso di Bruno Tabacci: «Non riesco a capire per quale motivo io e Enrico Letta, che la pensiamo allo stesso modo praticamente su tutto, dovremmo scontrarci in Parlamento per astratte questioni di dislocazione politica». Ora, che esista un’area omogenea al centro dell’arco politico è fuori dubbio. Si è formato una specie di pensiero unico secondo cui occorrono quote via via più ampie di mercato, presidiate ovviamente da regole snelle e condivise; ci vuole una iniezione di concorrenza per moderare i prezzi; è necessario ristrutturare selettivamente lo Stato sociale per adeguarlo alle esigenze di una società liberalizzata e a un sistema di imprese che deve misurarsi con la competizione globale, e che quindi ha bisogno di elasticità nelle procedure e di flessibilità nel mercato del lavoro. Poste queste condizioni, mancherebbe soltanto un protagonista in grado di proporsi credibilmente come la figura di riferimento dell’Italia di centro. Non tanto un politico-intellettuale come Marco Follini, e neanche i politici centristi da Pier Ferdinando Casini a Clemente Mastella (anche se gli ultimi sondaggi proiettano l’Udc e Follini verso il 7 per cento, cioè alla dimensione di terza forza, con tutte le chance di manovra che ciò comporta). Per essere decisivo il centro politico passa attraverso una scomposizione secca del sistema politico, il superamento del format bipolare, uno spettacolare "spacchettamento" dei poli. Tutto prematuro, quindi. Eppure le suggestioni sono importanti, e anche di richiamo europeo: la grande coalizione in Germania, e soprattutto l’emergere di una figura come quella di François Bayrou, che ha chiamato a raccolta una Francia profonda, insofferente della radicalizzazione fra i poteri forti di Sarkozy e l’immaginazione postpolitica di Ségolène, proponendosi come elemento condizionante di qualsiasi politica, ce la faccia o no a inserirsi nella partita Sarkozy- Royal e a giungere al ballottaggio nelle presidenziali. La convinzione che esista un’Italia volonterosa, pragmatica e indifferente alle ultime ragioni ideologiche, è forse l’invenzione più antipolitica dell’ultimo quindicennio. Nel senso che contesta la divaricazione determinata dalla formula elettorale, e giudica forzosa la separazione in due campi distinti dei riformisti. Appartiene a una cultura che accomuna personalità diverse, unite dalla nozione che il discrimine novecentesco fra destra e sinistra sia un residuo passatista. E che quindi guarda più alle figure carismatiche che non alle divisioni politiche. Per questo i riflettori si erano puntati sul convegno confindustriale di Genova, durante il fine settimana scorso, nell’attesa che il discorso di Luca Cordero di Montezemolo gettasse luce su un sentiero praticabile. È lui, Luca, il Cavaliere bianco, credibile per quasi sette italiani su dieci a destra come a sinistra? Ma il capo del movimento, non importa se virtuale o inesistente, Italia futura, ha scelto il profilo basso, limitandosi a intervenire sulla politica fiscale, auspicando che il "tesoretto" dei maggiori introiti tributari non venga distribuito con obiettivi elettoralistici. Certo che il "piano Montezemolo" risulta affascinante, glamour puro, e non solo per i sostenitori come Diego Della Valle e il network del presidente della Confindustria. L’unico problema è che l’eventuale centro montezemoliano presuppone uno sfaldamento catastrofico della struttura politica, con la spaccatura del centrodestra, il fallimento sul campo del Partito democratico, e l’implosione generale delle alleanze attuali. Ma il punto focale di qualsiasi ipotesi o progetto neocentrista (che in passato è stato attribuito anche a figure come Francesco Rutelli e all’attuale presidente del Senato Franco Marini), è soprattutto culturale. Al di là delle condizioni di fatto della politica di casa nostra, si diffonde come luogo comune la persuasione che la separazione fra destra e sinistra è un residuo novecentesco. Quasi come echeggiasse una dichiarazione d’intenti alla Celentano, «io sono un uomo libero, né destra né sinistra…». O in un rifiuto estremo della cultura come nell’ultimo film di Ermanno Olmi, "Centochiodi", con il protagonista Raz Degan che si immerge in una comunità infima alla ricerca di un’autenticità preclusa dal pensiero formalizzato. Ed è anche possibile che la società contemporanea sia esausta per la guerra che da quasi un quindicennio divide gli italiani in due fazioni contrapposte, senza che si possa assistere a sintesi ragionevoli. Ecco perché funzionano le figure mediane, i terapeuti della rassicurazione, i "Doctor House" della ragionevolezza. In questo senso, dopo i Santoro e i Floris, il conduttore televisivo di sinistra veltroniana Fabio Fazio, abile a smussare angoli e contrasti, a dialogare elegantemente ora con il destro Beppe Pisanu e ora con il sinistrissimo Fausto Bertinotti, non sarà un centrista, ma è un possibile interlocutore del centro. Centro. In fondo assomiglia a una categoria dello spirito. Se non un’identità, un sentimento nazionale. Ragionevole. Anzi, ragionevolissimo, se non fosse che i più elevati ragionamenti centristi devono fare i conti con il rischio implicito in tutte le ricomposizioni. E cioè con il possibile commissariamento dall’alto della politica. Centro come consiglio d’amministrazione della borghesia, come direbbe un vecchio marxista. Senza aggiungere, per carità di patria, che a metterla anche peggio potrebbe esserci la riscossa, dolce e implacabile, dell’Italia dorotea. n
12/04/2007