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Come obbedisce bene: promuoviamolo

18/08/2005

A proposito della designazione di Alfredo Meocci alla direzione della Rai, non si è sottolineato bene che il suddetto non ha mai diretto niente. Ora, nominare alla guida della massima agenzia culturale del paese un uomo che ha raggiunto più o meno il ruolo di caposervizio al tg, e che poi ha fatto carriera in organismi pubblici per linee interne, grazie alla sua fede dorotea e alla sua passione per Mariano Rumor, costituisce una delle più cospicue eccentricità del sistema italiano contemporaneo. Questo detto benevolmente. Ancora con benevolenza si aggiunga che c’è una norma per cui chi ha avuto posizioni in un’autorità di controllo, prima di quattro anni non può, dicesi non può, andare a fare il controllato. Se insigni giuristi, come il professor Malinconico di Udine, sostengono che Meocci può, dicesi può, ciò significa una sola cosa: che il prof. Malinconico ignora la differenza fra un caposervizio e un direttore generale. Nessuno eccepirebbe se il giornalista Meocci ritornasse al suo onesto desk al tg. Ciò che non si capisce è per quale ragione la maggioranza abbia voluto imporlo alla direzione della Rai. Su "Avvenire" i titoli hanno fatto balenare l’idea di uno scambio colossale e miserabile: "Alla Rai Petruccioli, a Mediaset la serie A". In questo schema, Meocci sarebbe un comma aggiuntivo: la scelta di una personalità minore dettata dalla certezza della sua malleabilità. Per gli strateghi del centrodestra Meocci è l’immagine del dirigente obbediente: promoveatur. (Come promoveatur "l’ing." Claudio Regis, detto "el Valvola", che ha fatto fuori dall’Enea il premio Nobel Carlo Rubbia, anche se il "Corriere della Sera" non ha capito dove e come si sia laureato, secondo un memorabile articolo di Gian Antonio Stella del 2 agosto). Ora, si sa che esiste la grazia di Stato, e che papi di transizione possono diventare papi d’epoca. Quindi a Meocci non è precluso a priori alcun obiettivo. Ma intanto viene da chiedersi quanto sia autolesionista il paese che ha bisogno di manager finti, che rispondono solo alla ragione politica. Verrebbe voglia di chiederlo ai grandi imprenditori che onorano l’Italia industriale, agli industriali che combattono la dura partita della concorrenza, ai commis che si sbattono nonostante tutto: qualcuno di loro designerebbe come amministratore delegato un impiegato? Montezemolo nominerebbe mai al posto di Jean Todt un giornalista di media qualità, o un consigliere comunale del Ccd? Diego Della Valle metterebbe al vertice delle Tod’s un collaboratore del periodico diocesano "Verona fedele"? E il ministro Domenico Siniscalco sistemerebbe alla direzione del Tesoro uno dell’ufficio stampa? A proposito, sempre per toccare temi cari ai piani alti della Confindustria: la pagliacciata dell’asta sul calcio in chiaro, con i cento miserandi euro di offerta, è un successo del mercato o una mosconata della consociazione? E le dichiarazioni secondo cui l’asta è stata un successo perché la Rai ha conquistato la Coppa Italia, come andranno prese, come la certezza che i cittadini sono diventati talmente ottusi che ingoieranno anche questa? Sono naturalmente domande retoriche. Il punto è che quattro anni di Cdl sono stati sufficienti per corrodere il tessuto delle regole, non solo, delle convenzioni, delle formalità, del galateo. Ci sarà un motivo se il governatore della Banca d’Italia e membri della sua famiglia parlano in romanesco, o in ciociaro, con la compagnia del concerto. Ci saranno ragioni essenziali se la Banca centrale è diventata un pertugio in cui si entra "dal retro", con doppi sensi ed effetti comici degni del migliore Totò. Dice Arturo Parisi, suscitando un mezzo scandalo, che sta tornando la questione morale. Chissà. Sta prendendo il sopravvento su un’Italia mitridatizzata, un’Italia totalmente spregiudicata, che ha capito come trattare i veleni, che considera normale l’illegalità e manipolabili le norme secondo interesse. Insomma, una situazione manzoniana, si direbbe, fra gride e Azzeccagarbugli; ma prima di ricorrere ai "Promessi sposi", va messo a fuoco che il pettinatissimo presidente del Consiglio ha accampato una faringite per evitare di prendere una posizione su Fazio, con l’atteggiamento del "troncare e sopire" tipico del conte-zio, e che il vicepremier Tremonti ha salutato la relazione del collega Domenico Siniscalco sulla Banca d’Italia come "il ruggito di don Abbondio". Tanto per restare in ambito manzoniano, non resterebbe che aspettare una bella pioggia, che porti via la peste.

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