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Commissario per il PD

18/12/2008

Il marasma in cui è precipitato il Pd è dovuto a varie ragioni, e la più seria deriva dalle ondate di sofferenza politica provenienti dalla sconfitta del 13-14 aprile, nonché dall’andamento schizofrenico del "dialogo" con Silvio Berlusconi, che prima ha attirato Walter Veltroni in campo aperto, e poi lo ha colpito a freddo. Ma è anche chiaro che nel Pd le linee di contrasto interno sono numerose. Innanzitutto c’è un’incertezza sulla strategia generale del partito: la problematica alleanza con il partito giustizialista di Antonio Di Pietro è stata data per sciolta un giorno sì e l’altro pure, ma agli annunci non sono seguiti i fatti, e l’ex pm trova continue occasioni per esercitare una concorrenza vistosa verso il Pd. Nel quale in prospettiva si profilano almeno due ipotesi, se non proprio due progetti. Da un lato si vede la scia del progetto veltroniano fondato sulla «vocazione maggioritaria», che vede nel partito un potenziale di consenso ancora inesplorato, e quindi lo considera in grado di candidarsi a governare la nuova modernizzazione del paese, alleandosi eventualmente soltanto «con chi ci sta», cioè condivide il programma generale del Pd. Questa sarebbe la direttrice ufficiale. Ma su un altro lato, quasi mai dichiarato ufficialmente, serpeggia l’idea che il Pd è, crocianamente, un "ircocervo", cioè una chimera, un ibrido; e dunque occorre favorire la nascita di un’alleanza al centro, con l’Udc, e di un’altra a sinistra, con i partiti residui della Sinistra Arcobaleno. Se poi questa strategia dovesse portare alla disgregazione del Pd, con i centristi da una parte e gli ex comunisti dall’altra, niente paura: si riesuma il politicissimo "centro-sinistra con il trattino", con tanti saluti al partito nuovo e il ritorno alla rassicurante coalizione tra realtà diverse, senza ubbíe uliviste o "democrat". Quest’ultima scelta, modellata su schemi di realismo politico assoluto, sarebbe il riconoscimento che contro la destra attuale il Pd non ha chance, e quindi deve cambiare schema di gioco. Se poi si aggiunge che negli ultimi giorni si sono susseguite dichiarazioni di esponenti "nordisti" come Sergio Chiamparino, Filippo Penati e Massimo Cacciari, i quali hanno riaperto la questione territoriale, rilanciando l’ipotesi del Partito del Nord (il sindaco di Torino alludendo anche a possibili evoluzioni nel rapporto con la Lega), ci si accorge che il Pd in questo momento è un partito davvero ipotetico: si alimenta di ipotesi conflittuali, senza che risulti chiara, e sottoscritta dagli organi dirigenti, un’idea complessiva. Mettiamoci sopra, come suggello terminale, la crisi territoriale, con l’emergere di una questione di legalità che coinvolge diverse amministrazioni locali (vedi il numero scorso de "L’espresso"), e non manca nulla alla constatazione di una piena emergenza. Con l’aggravante che l’emergenza non è riconosciuta; anzi, lo sforzo principale dei dirigenti consiste nel negare, ridimensionare, sottacere: insomma, il troncare e sopire di manzoniana memoria, che tuttavia non può occultare la profonda sfiducia che si è impadronita del partito, e il senso di delusione negli eletti, di frustrazione nella base e di disarmo morale nell’opinione pubblica vicina al riformismo del centrosinistra. Basta sommare tutti gli elementi appena ricordati, e l’incapacità di svolgere un’opposizione convincente al governo di Silvio Berlusconi, modestissimo e gravemente insufficiente rispetto alla crisi, per rendersi conto che il Pd è in emergenza: anzi, oltre l’emergenza. E allora, se ci si trova in una condizione eccezionale, non serve a nulla far finta di niente, e pensare di risolvere i problemi con negoziati e accordicchi interni. A condizione eccezionale, soluzioni eccezionali. Non i coordinamenti, le riunioni burocratiche, le procedure standard. Ci vuole qualcosa di solenne, che mostri alla società italiana la percezione esatta di un problema straordinario. Occorre la mobilitazione di tutte le risorse personali, parlamentari e locali, per procedere a un esame della situazione fuori dai criteri ordinari e a uno "stringiamci a coorte", proprio in senso patriottico, dei principali dirigenti. Ci sono severe opposizioni a un’ipotesi del genere. Il rischio evocato è quello di un sostanziale commissariamento del Pd. Ma che dire? Meglio un commissariamento di fatto che una unità formale e fittizia, il retorico "nessuno tocchi Veltroni", il patteggiamento fra le correnti alle spalle del segretario. Il Pd rischia l’asfissia da consenso domestico. Ma se la piaga rischia di essere cancrenosa, meglio, molto meglio allora il medico impietoso.

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