C’è calciatore e calciatore, per quanto ex. L’immagine di Gianluca Vialli non è quella del centravanti sbollito. Gli attaccanti in disarmo non pubblicano libri come "The Italian Job", scritto con il giornalista Gabriele Marcotti (già coautore nel 1999 dell’autobiografia di Paolo Di Canio). Il volume, che non è un’autobiografia di un calciatore bensì una filosofia empirica del calcio, è stato pubblicato in Inghilterra nella primavera scorsa, e proprio in questi giorni, tradotto da Mondadori, è in uscita anche in Italia, con una postfazione che aggiorna la riflessione agli ultimi sei mesi, compresa la vittoria italiana al Mondiale tedesco. D’altronde Vialli è un’eccezione perfino antropologica nel calcio italiano ed europeo. Trovatelo voi un calciatore, allenatore, commentatore che come lui, con il collega Massimo Mauro, abbia messo su una fondazione per la ricerca sul cancro e la sclerosi amiotrofica laterale (il morbo di Lou Gehrig, che sembra infierire con la sua crudele e implacabile lentezza proprio sui calciatori), a cui è devoluta la sua parte di proventi di questo libro; che per sovrammercato cita il maestro cinese Sun Tzu e Niccolò Machiavelli, e che ha il coraggio o l’improntitudine di pubblicare un saggio sul calcio con un indecifrabile titolo inglese. Come si traduce? L’affare italiano? Meglio, e più semplice, all’italiana. Potrebbe tuttavia essere roba di contropiede, di pasta, "macaroni" o di mafia, tutte specialità peninsulari. Fortuna che soccorre il sottotitolo: "Tra Italia e Inghilterra, viaggio al cuore di due grandi culture calcistiche". Libro altamente filosofico, si diceva: perché è chiaro che nessuno legge il testo di un bravo attaccante, e allenatore ancora molto atteso anche se a lungo in stand by, comunque star mediatica e personaggio della "glam community" europea, di casa sulla scena londinese fin da quando, dopo i fasti sampdoriani, juventini e azzurri, era diventato l’allenatore- giocatore del Chelsea, per saper qualcosa di generale sul sistema Moggi o sul circuito milionario intorno al pallone. Chissenefrega, del business calcistico e delle spese pazze del boiardo Abramovic. Si legge eventualmente il "borghese" Vialli, figlio di una buona famiglia cremonese e allenatore in camicia bianca, alla Klinsmann, per avere semmai un’idea del calcio ipermoderno, modellato su prestazioni "playstational", in cui l’abilità nella coordinazione si sposa a una violenza fisica impressionante, e l’individualità va messa al servizio del gruppo. Il titolo allude alla differenza di stile e contenuto fra il calcio inglese e quello latino. Fra «Mary e Veronica», dice Vialli con la personalizzazione femminile di due tradizioni tecnico-tattiche: Mary sarebbe il football all’inglese, quella disciplina per le classi inferiori che a suo tempo veniva giudicata con evidente snobismo dall’aristocrazia britannica dedita al rugby o al cricket. Quindi, la suddetta Mary, un’amante prevedibile, un po’ rigida, senza troppe fantasie; mentre Veronica, una latina tutta intuizioni, elusioni, finte e scene madri. Sulla scorta del realismo politico di Machiavelli e degli insegnamenti millenari di Sun Tzu, si va al cuore del problema: campioni si nasce o si diventa? Conta più la tecnica individuale o l’intelligenza tattica? La forza atletica o «le palle», cioè la personalità in campo, nello spogliatoio e nella vita? Di primo acchito Vialli, esponente macho dell’Europa metrosexual, la prende sul sociologico: non sarà che il calcio riesce bene soprattutto alle "underclass", cioè al proletariato o sottoproletariato urbano, e meno alla borghesia? Secondo altri ideologi del "soccer", il successo nella tecnica e nella tattica o nell’interpretazione atletica del calcio dipende invece dal clima: eccellono nell’individualità i paesi con un clima mite o caldo, in cui si sta molto tempo all’aria aperta, con i ragazzini che imparano a fare tutto con il pallone. Sono schemi troppo deterministici? In effetti i brasiliani diventano funamboli sulle spiagge di Rio, i bimbi italiani diventavano imbattibili nei cortili accidentati delle case di ringhiera. Ma alla fine Vialli propende per una spiegazione inedita: a Milano, Roma e Torino piove più che a Londra, quindi non dovrebbero esserci eccessive e decisive diversità climatiche fra un aspirante calciatore italiano e il suo omologo britannico; ciò che fa la differenza è il dio Eolo, figlio di Poseidone: ma sì, il fattore vento. Nei ventosissimi campi inglesi non si riesce a fare nulla di sistematico se non corsette di riscaldamento e partitelle a cinque; gli allenamenti devono essere semplici, bisogna correre sempre altrimenti i muscoli si raffreddano. E così non c’è tempo di «pensare il calcio», secondo il principio metafisico del teoreta calcistico del Chelsea, José Mourinho. In Scozia, nel Galles, in Irlanda non fioriscono geni tattici come Alfredo Di Stéfano o Paulo Roberto Falcão, e forse nemmeno i centromediani neometodisti alla Pirlo; alla lunga il calcio inglese viene messo facilmente in scacco dalle veroniche di "Veronica" e c’è una ragione se il Brasile assolato di Ipanema e Copacabana ha vinto cinque titoli mondiali, e in rappresentanza della zona temperata l’Italietta nevrotica ne ha portati a casa quattro, mentre la fredda, bianca e potente Inghilterra soltanto uno, nel 1966, giocato in casa con il favore degli dei e degli arbitri. E allora qual è il mistero, l’enigma, l’alchimia che fa il grande giocatore? Su se stesso, attaccante universale, Vialli non ha dubbi: la sua forza era il "Delta" bassissimo, un differenziale quasi zero nel rendimento su sforzi ripetuti, vale a dire la potenza costante sull’arco di 15-20 scatti, finché il difensore avversario, magari più veloce, non crollava nel confronto fisico. Mentre per gli altri giocatori occorre una valutazione più complessa, che si raffigura nel "quadrilatero di Vialli", quattro dimensioni che tracciano gli assi della forza atletica, dell’intelligenza tattica, della tecnica di gioco, e dei già citati "attributi". In base a queste nozioni, si capiscono meglio le personalità dei giocatori e lo spirito delle diverse scuole calcistiche. Ma il colpo di genio? Il "numero" che annichilisce gli avversari e un intero stadio, il colpo alla Ronaldinho, le invenzioni stratosferiche di Diego Armando Maradona? C’è posto per il talento assoluto nel calcio spot di Vialli? Ma certo: talvolta anzi il colpo di tacco o il tiro a parabola da 50 metri sono un’esigenza assoluta e superiore, che soltanto il fuoriclasse avverte come necessaria: qualcosa che equivale «alla Gioconda di Leonardo, o all’inno americano di Jimi Hendrix a Woodstock»: opere che si potevano fare diversamente, ma che per passare nel mito dovevano essere portate al rango di eccezioni pure. Come il calcio tutto mentale e tutto fisico di Vialli, modernità assoluta, autorappresentazione Zen, esercizio psicologico totale, che ancora attende di trovare un’applicazione in campo, da parte del suo ideologo. n
18/01/2007