È stata una sentenza durissima, praticamente spietata. La nettissima bocciatura a cui la Corte costituzionale ha sottoposto il Lodo Alfano è la prima vera e grande sconfitta politica di Silvio Berlusconi. Al confronto, sbiadisce persino la caduta del suo governo nel 1994, dopo solo sette mesi. La sentenza della Consulta è stata motivata nitidamente in punto di diritto, e non è possibile attribuirle una intenzione strumentale o politica. Indica un riferimento all’articolo 3, cioè al principio di uguaglianza dei cittadini, oltreché una sciatta violazione dell’articolo 138 della Carta costituzionale, nel senso che una legge di quella portata implicava un iter di modificazione costituzionale, e non una legge ordinaria. Bocciatura senza appello, dunque. Tuttavia, anche se la politica è rimasta fuori dal palazzo della Consulta, gli effetti del verdetto sul Lodo configurano una situazione potenzialmente distruttiva per il premier e per l’alleanza di destra, e quindi colpi di coda a non finire. Verrebbe anzi da dire: chi è causa del suo mal pianga se stesso, oppure: chi semina vento raccoglie tempesta, dato che i vertici del centrodestra e lo staff di avvocati del Cavaliere hanno contribuito in modo addirittura stravagante a drammatizzare la decisione sulla legge Alfano. Per dire, ancora nel pomeriggio della sentenza, Umberto Bossi aveva minacciato di «trascinare il popolo» nelle piazze in caso di bocciatura del Lodo, esercitando una pressione inaudita sulla Corte. A sua volta la pancia del Pdl si scatenava nei blog e nei siti del centrodestra sostenendo più o meno che «quindici parrucconi non fermeranno il popolo». Ma l’aspetto più inquietante sul piano istituzionale era stata l’offensiva messa in campo dagli avvocati che sostenevano la causa di Berlusconi e dell’immunità per il premier e le principali cariche pubbliche: lasciamo pur perdere la posizione dell’avvocatura dello Stato, che aveva offerto motivazioni di puro realismo politico, preferendo nelle proprie argomentazioni le opportunità della politica spicciola, e favorevole al capo del governo, al rigore giuridico (anche questa è una sconfitta nella sconfitta, e una sostanziale scalfittura nella credibilità per quell’alto ufficio). Ciò che invece è risultata sorprendente, fino ai limiti dell’incredibile, è stata la strategia di Niccolò Ghedini e Gaetano Pecorella, i due super professionisti che assistevano Berlusconi nell’affaire del Lodo. Ghedini e Pecorella hanno sostenuto che la Costituzione materiale aveva modificato, praticamente fino a travolgerla, la Costituzione formale. Ghedini si è spinto fino ad argomentare il sofisma secondo cui la legge è effettivamente uguale per tutti, ma può essere diseguale la sua applicazione, a seconda del soggetto che ne è coinvolto. Più "ad personam" di così si muore. Con maggiore sofisticazione giuridica, ma con esiti virtualmente travolgenti per l’assetto istituzionale, Pecorella ha sostenuto che, in seguito alla legge elettorale universalmente conosciuta come "Porcellum", il premier viene «eletto» dal popolo, senza mediazioni parlamentari, e quindi la sua diventa una funzione apicale, superiore a quella degli altri ministri: il primo ministro diventa, secondo Pecorella, non più un «primus inter pares», bensì un «primus super pares», meritevole quindi di un trattamento particolare nell’ordinamento generale. La tesi era insostenibile, proprio in quanto investiva la natura e la fisionomia stesse della Repubblica, che resta di tipo parlamentare, in cui il premier deve ricevere l’incarico dal Quirinale, e raccogliere la fiducia in Parlamento. Ma il "lodo Pecorella", se possiamo chiamarlo così, rivelava l’intento di forzare i limiti e i confini dell’apparato costituzionale, "sfondando" in modo plebiscitario l’impianto della Carta. Può essere proprio questa tesi a far inclinare il giudizio della Corte verso la bocciatura. E dovrebbe essere evidente che questa strategia preparava lo sfondo per il conflitto prossimo venturo. Perché è chiaro che Berlusconi e le sue truppe si stanno preparando alla guerra, e che la guerra comincerà immediatamente. Il Cavaliere è sotto attacco da parte della magistratura milanese, per il processo Mills (corruzione in atti giudiziari) e per i fondi neri nella compravendita di diritti cinematografici e tv; a Roma per il tentativo di acquisire il voto di alcuni senatori per far cadere il governo Prodi. Per la prima volta il premier rischia, soprattutto nel caso Mills, una condanna penale che potrebbe risultare devastante per la sua immagine, sul piano interno e sul piano internazionale. Che cosa farà quindi Berlusconi? A quanto si capisce, dopo avere dichiarato che nella Corte costituzionale «undici giudici sono di sinistra», è pronto ad andare "à la guerre comme à la guerre" e a «sbugiardare» i suoi nemici. «Vado avanti»: aveva già cominciato ad agitare i sondaggi di Euromedia, che gli assicurano un consenso mai visto, garantito dalla sua cappa mediatica. E quindi il suo piano bellico è facilmente descrivibile. Un uomo solo, ricco, amato e odiato, ma unto dalla «doccia di schede elettorali» si sente in grado di sfidare istituzioni e convenzioni della Repubblica. È un progetto iper-populista, con modalità ed esiti virtualmente peronisti. Berlusconi è come sempre pronto a sfidare l’universo mondo, la sinistra, i comunisti, i magistrati rossi, la stampa di sinistra, la televisione che fa opposizione, senza curarsi minimamente dei danni pubblici che la sua azione può provocare. Va da sé, allora, che lo scenario che si presenta davanti ai cittadini è un panorama di rovine, potenzialmente catastrofico. Ridiventano fin troppo evocative le immagini finali del "Caimano" di Nanni Moretti, con i fuochi appiccati dai supporter del protagonista. Certo non c’è da confondere la finzione con la realtà; ma per evitare sovrapposizioni disastrose fra i due livelli occorre una eccezionale saldezza degli apparati istituzionali e dell’establishment nazionale. Mentre sulla tenuta delle istituzioni si può nutrire una certa fiducia, visto che la stessa sentenza della Consulta testimonia positivamente in questo senso, e che comunque sull’ultimo Colle la presenza e la coerenza di Giorgio Napolitano offrono garanzie, il problema principale riguarda l’atteggiamento delle élite. In una condizione di paese normale, il premier si dimetterebbe e affronterebbe i processi che lo attendono. Sarebbe legittimo da parte sua cercare di mobilitare i suoi fan e tuffarsi nel grande gioco delle elezioni anticipate. Ma ci sono troppi vincoli, istituzionali e comportamentali, che coinvolgono il ruolo dei presidenti delle Camere e la funzione attiva del capo dello Stato. Tuttavia tocca soprattutto ai circuiti formali e informali del potere, a tutti i livelli, cercare di stabilizzare una situazione fortemente critica. Se l’establishment italiano accettasse di schierarsi secondo il modulo berlusconiano, dividendosi in modo cruento e sposando la causa dello scontro totale, si potrebbe anche chiudere bottega, in attesa della fine della bufera. Conviene augurarsi che per una volta la vischiosità del potere in Italia rappresenti un freno alla guerra civile ideologica che Silvio Berlusconi ha già dichiarato. Sembrerà stravagante appellarsi all’anima andreottiana o dorotea della nostra società; ma quando la situazione si colora di drammaticità è naturale aggrapparsi a tutto, anche alla prudenza e alle cautele che in passato hanno impedito un cambiamento fruttuoso. Qui e ora, probabilmente, c’è soltanto da provare a salvare un paese. n
15/10/2009
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