gli articoli L'Espresso/

Due gambe e tanti sgambetti

07/02/2002

Eppur si muore. Veleni in salsa ulivista, veti, fraintendimenti. Nella babele di tutti contro tutti, con la leadership di Rutelli in discussione, Michele Salvati, una delle anime riformiste dei Ds, non nasconde l’inquietudine: «Perché nel frattempo, inseguendo la logica di fazione, i leader della coalizione hanno perso di vista che un’alleanza deve proporre un programma di governo». Risse interne e ululati contro Berlusconi: questa è impotenza, altro che programma. «Se vogliamo sfidare Berlusconi senza ricorrere alla demonizzazione, l’unico modo è presentare all’elettorato un programma alternativo. Un attacco duro va bene, ma è efficace solo se si accompagna a un progetto coerente». Il programma per cui si batte lei è quello di un’area che nei Ds sta al 4 per cento. Ma il segretario è Fassino. «Guardiamo meglio: il blocco intorno a Fassino è un amalgama di "centristi", preoccupati essenzialmente della tenuta dei Ds. Nel merito della politica economico-sociale, più di metà sono con noi liberal. Ma, se viene sottoposta a una sfida esterna, la maggioranza Ds è tentata da un riflesso conservatore. Per esempio: Bersani è un riformista, ma è fedele alla sua storia di partito. Oggi, uomini come lui sono in bilico fra l’ansia di rilancio politico e il riflesso difensivo. Fassino stesso è il sigillo su questo dilemma». Vuol dire che la compattezza del blocco fassiniano è solo apparente? «Voglio dire che se venisse una forte spinta esterna verso il partito unico, e la sinistra Ds fosse violentemente contraria, anche la tenuta dei fassiniani entrerebbe in discussione». C’è anche la pressione "interna" di Cofferati e del sindacato. Nel documento presentato da voi liberal a Pesaro, c’era scritto che il sindacato ha perso la spinta propulsiva. «La reazione di Cofferati all’accusa di conservatorismo rivoltagli da D’Alema è in sé comprensibile. Ma va anche riconosciuto, come abbiamo detto nel documento congressuale, che i sindacati si muovono in ordine sparso, e ritrovano di solito l’unità sulle iniziative più conservatrici. Mentre ci sarebbe un vasto campo da coltivare, che consiste nell’organizzare i più deboli e i meno tutelati». D’Alema sarebbe d’accordo. Ma proprio lui sembra costituire uno dei problemi cruciali della sinistra. «D’Alema è un leader ingombrante. Perché ha prestigio, e la base glielo dimostra. Perché si è messo in collisione con pezzi importanti del partito: con Veltroni sull’Ulivo, con il "dottor Cofferati". Paga l’intervento nel Kosovo, che molti non gli perdonano. Paga la Bicamerale, cioè l’implicita legittimazione di Berlusconi». D’Alema è un fattore di conflitto anche con la Margherita. Ma qual è il ruolo di Rutelli? «Se ho capito bene, Rutelli accelera per trasformare la Margherita in partito. È una posizione con i pregi e i limiti del realismo». Che però ci riporta dritti al "competition is competition" di Prodi. «Anzi, con la minaccia di una competizione più aspra. Io guardo con terrore alle amministrative di fine maggio, perché si rischia di arrivarci in una situazione di concorrenza totale». Mentre da parte dei Ds si insiste con la prospettiva socialdemocratica. Non siamo all’incomunicabilità? «Se si voleva perseguire una prospettiva chiaramente liberalsocialista, quindi competitiva con il centro, occorreva andare fino in fondo e portare Giuliano Amato alla guida del nuovo partito di socialismo europeo. Oggi invece sembra che fare la coalizione a due gambe distinte sia l’unica via. Ma c’è una conseguenza di grandissimo rilievo, che rimane sottaciuta: in una coalizione così fatta il leader non sarà mai un Ds. Non abbiamo le credenziali, o non ci verranno riconosciute, il che è lo stesso». Ma l’Ulivo a due gambe è competitivo? «No. Dipende anche dall’unità effettiva dentro la Margherita, che è un cartello con elementi di artificialità ancora maggiori dei nostri». Anche il centro-destra è artificiale. «Con la differenza che là c’è il padrone, Berlusconi, mentre da noi non c’è». E quindi, in queste condizioni? «Si perde. Vengono allo scoperto non solo le contraddizioni sull’asse destra/sinistra, ma anche quelle fra laici e cattolici. Nessuno abbandonerà le proprie pregiudiziali, e i vari settori dell’alleanza si preoccuperanno principalmente di curare il parco elettorale». La balcanizzazione, o la mastellizzazione. Non sarà che dentro la Margherita c’è ancora spirito di vendetta? La voglia di fare scoppiare la crisi finale dei Ds? «Oggi forzare in questo senso significherebbe autodanneggiarsi. Anche l’autolesionismo deve avere un limite». Come se ne esce? «Nell’immediato, con una reggenza che provi a consolidare l’alleanza come federazione. Poi con un comitato di programma esteso a tutti, che marchi stretto il governo Berlusconi sui problemi, senza lasciare spazio a iniziative estemporanee e individuali. Se poi Arturo Parisi elaborasse in modo costruttivo quello che lei ha definito spirito di vendetta, darebbe fiato a tutti coloro che, anche nei Ds, continuano a sperare, malgrado tutto, nell’Ulivo come partito unico».

Facebook Twitter Google Email Email