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Eccellentissimi, onorevoli e impuniti

24/01/2002

Qualcuno l’ha definita una boutade, altri «una provocazione». Ma al di là delle intenzioni da cui era mossa, la proposta del vicepresidente del Csm Giovanni Verde di bloccare i processi contro i politici introducendo nuovamente l’istituto dell’autorizzazione a procedere è stata un intervento politico di assoluto rilievo. Non importa il fatto che sia stata dettata «dalla disperazione», secondo il giudizio di Massimo D’Alema, cioè come risorsa estrema di fronte alla guerra «tra i falchi dell’una e dell’altra parte», come ha detto il vicepresidente del Csm. Conta piuttosto che 24 ore dopo la pubblicazione dell’intervista sulla "Stampa", il messaggio di Verde sia stato recepito dal senatore di An Giuseppe Consolo, che ha presentato un disegno di legge in proposito. E che l’ex presidente Francesco Cossiga, nel pieno del dibattito scatenatosi, l’abbia subito appoggiata, «anche per riaffermare il primato della sovranità parlamentare in uno Stato democratico rispetto all’applicazione astratta del principio di legalità». Perlomeno, il senatore a vita Cossiga ha il merito di specificare con esattezza i termini della questione. Sovranità parlamentare, cioè politica, rispetto alla legalità. Sono gli elementi di un rapporto che si è squilibrato drammaticamente giusto dieci anni fa, con l’emersione di Tangentopoli, e che non si è mai più ricomposto. Non che siano mancati i tentativi: il progetto di Giovanni Conso e Giuliano Amato, "l’articolato di Cernobbio" (predisposto da Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo con la collaborazione di avvocati di fama), il decreto Biondi, il testo della Bicamerale, e una serie innumerevole di proposte più o meno estemporanee su amnistie e condoni. In fondo, è vero che si sono sempre confrontate due scuole: da un lato i fautori del ritorno al primato della politica, dall’altro i sostenitori del principio di legalità, più o meno astratto. Ma dietro la disputa politico-giuridica, e nello scontro spesso estremizzato o montato ad arte fra giustizialisti e antigiustizialisti, restava un punto cruciale: vale a dire il coinvolgimento di Silvio Berlusconi e di alcuni suoi gregari in processi penali contigui al rapporto tra affari e politica. Il resto sono cineserie. Non erano invece orpelli legulei le linee guida della riforma politica, avviata fra il 1991 e il 1993, che ha condotto all’impianto attuale del sistema democratico: si supponeva infatti che il meccanismo dell’alternanza avrebbe fatto circolare aria fresca nel sistema, liberandolo dalle incrostazioni clientelari e affaristiche. Democrazia bipolare e processi penali erano in sostanza due facce di una stessa operazione di ripulitura. Cioè del ripristino della legalità. A dispetto dei propagandisti dell’antigiustizialismo, l’unica ghigliottina era quella costituita dallo scatto impietoso del sistema maggioritario. Il fair play democratico doveva consistere nell’accettare sia la logica dell’alternanza sia la formula della competizione bipolare. Che ora si proponga di tornare all’antico, cioè all’impunità o all’impunibilità della classe politica, non ha solo un sentore di revanche: è anche, o sarebbe, la certificazione che la politica non è sovrana a sufficienza per autoriformarsi e per consolidare la riforma. In questo caso, le aspre battaglie politiche condotte nel 1994, nel 1996 e nel 2001 sarebbero da ricordare solo come subordinate della questione giudiziaria. Il loro contenuto di moralità politica, iscritto nella sfida del gioco bipolare a somma zero, sconfitta e vittoria, verrebbe annichilito nei fatti. Occorre quindi chiedersi perché mai dovrebbe convenire trasformare un’eccezione nella regola: vale a dire se l’"unicum" rappresentato dal politico Berlusconi, con il suo carico di procedimenti penali, debba essere trasferito su un piano generale come garanzia di impunità per l’intero ceto politico. Certo, il Cavaliere costituisce un "unicum", ma non solo per le sue implicazioni giudiziarie: anche per il conflitto d’interessi, per il suo retroterra economico e mediatico, e politicamente per la sua concezione populista della democrazia, secondo cui il voto legittima ogni posizione politica. Ragion per cui la "sanatoria Berlusconi", perché di questo si tratta sull’autorizzazione a procedere, sarebbe solo un palliativo, parziale per giunta. Poi occorrerebbe sanare il conflitto d’interessi, l’egemonia nei media, gli sgarri costituzionali (ultimo quello relativo a Renato Ruggiero, inedita figura di ministro "a tempo"). Per l’intanto però ci terremmo la ricostituzione di una casta di eccellenti intoccabili. Proprio mentre la logica del collegio uninominale, con relativa personalizzazione delle candidature, continua a prevedere un giudizio degli elettori sull’intera personalità degli eletti, non solo sulla loro affiliazione partitica. Sotto la luce delle sanatorie, allora, evviva la proporzionale, con un presidente eletto dal popolo e lavato d’ogni scoria dal bagno di schede, e un parlamento di eccellenze. Ma sia ben chiaro che questo è un altro gioco, che sa di restaurazione, e di immutabilità del potere.

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