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Effetto Walter

12/07/2007

L’effetto Veltroni è passato sul centrosinistra e sulla politica italiana come un ciclone. Ma i giochi sono tutti fatti? L’abilità del nuovo entrato ha davvero acceso sul flipper democratico la lucina "game over"? Non c’è dubbio che l’iniziativa del sindaco di Roma ha realizzato un evento politico di quelli che segnano una fase. Il blitz ha avuto successo. Si può dire tuttavia già adesso che il Partito democratico è un soggetto che si crea "senza se e senza ma" a immagine e somiglianza del candidato Veltroni? Dipende dagli angoli di osservazione. Per il momento dentro Palazzo Chigi si guarda all’appuntamento del 14 ottobre marcando silenziosamente le distanze. Romano Prodi ha bisogno di tempo per dimostrare che l’azione di governo ha dato risultati positivi e che dopo le stagioni delle tasse è arrivato il momento della redistribuzione. Nel circuito prodiano si sta cercando di mettere a fuoco il problema principale e per molti versi paradossale dell’esecutivo: come è possibile che una serie notevole di risultati positivi (controllo dei conti pubblici, livello dell’inflazione, dati sull’occupazione, sostegno alle imprese con il taglio del cuneo fiscale, ridefinizione della politica estera) si siano trasformati nella percezione pubblica in una catastrofe. Gradimento al 26-27 per cento, minimo storico, secondo i dati commentati su "la Repubblica" da Ilvo Diamanti. Ma la stessa candidatura di Veltroni, con il suo eccezionale rimbombo sui media e nell’opinione pubblica, ha dimostrato che la struttura del consenso è fluida. L’impopolarità di Prodi è il frutto di aspettative asimmetriche: il Nord si aspettava sviluppo e ha avuto tasse, il Sud voleva trasferimenti pubblico e non ha avuto nulla, i ceti medi qualificati avevano fatto buon viso a una redistribuzione virtuosa, a favore dei ceti non privilegiati, che invece non si è vista. In ogni caso l’ingresso in campo del sindaco di Roma ha spostato in modo sensibile l’asse del confronto politico. Anche l’accanimento di Silvio Berlusconi contro Romano Prodi appare in qualche misura sfasato: serve per mobilitare il becerume contro le «stronzate» di Prodi, ma non va al di là della propaganda, oltre a introdurre un ulteriore quoziente di volgarità nel confronto politico. Il capo dell’opposizione sente il bisogno di scuotere il governo e la maggioranza per cercare di ottenere le elezioni a breve termine, ma per diversi aspetti oggi il baricentro dell’Unione non è più nell’esecutivo. O meglio. Il governo Prodi costituisce la sintesi del centrosinistra, e proprio per questo mostra continuamente la corda, in quanto deve mediare a fatica tra sinistra riformista e sinistra alternativa. Ma in questo momento, se si vuole guardare alla prospettiva, ciò che conta davvero è il riallineamento degli schieramenti in vista del futuro confronto politico. Ora, per ciò che riguarda il centrodestra la situazione è semplice. Berlusconi deve trovare il modo per giungere alle elezioni politiche in modo da riproporsi credibilmente come leader della sua coalizione e candidato insostituibile alla premiership. Ha poco tempo. Il rientro di Veltroni nella politica nazionale, con il discorso al Lingotto, ha rappresentato anche un salto generazionale cospicuo. Ogni giorno che passa, il Cavaliere invecchia. Magari non nella sua tenuta fisiologica e temperamentale, ma nella sua immagine, nel complesso degli interessi che rappresenta, nel contenuto simbolico dei suoi ideologismi e nella visione del paese che proietta nel futuro. In sostanza, Berlusconi incarna quel complesso di pulsioni che fanno riferimento alla piccola e piccolissima impresa, al mondo delle partite Iva, a quell’universo di cittadini che sono disposti a scontare l’inefficienza pubblica come un prezzo da pagare per consentire l’interesse privato. Veltroni invece rappresenta un’Italia proiettata nell’immaginario, capace di accensioni emotive, in cui l’economia sembra la subordinata di un’evoluzione "postpolitica", largamente fondata su fenomeni postmaterialisti. Il salto qualitativo è impressionante, e per certi versi anche affascinante: in fondo, il confronto ideale tra la destra proprietaria di Berlusconi e la sinistra liberale di Veltroni si configura come un faccia a faccia tra il Novecento liberoscambista del Cavaliere e del sarkozismo alla lombarda di Giulio Tremonti, da una parte, e dall’altra il Duemila scintillante e spettacolare dell’autore delle notti bianche, l’impresario politico della movida romana, delle inaugurazioni, dei concerti, dell’economia dei servizi, dei media, del cinema, della reinterpretazione dell’effimero come strumento di consenso. Ma nello stesso tempo la postpolitica di Veltroni pone serissimi problemi anche al centrosinistra e al Partito democratico. In primo luogo perché per ora l’investitura a leader del sindaco di Roma ha tutte le caratteristiche dell’operazione dall’alto, un gioco di strategia gestito da Massimo D’Alema e Franco Marini, con la collaborazione attiva di Dario Franceschini (un cervello politico di prim’ordine, capace di intuizioni notevoli, ma propenso a un realismo che potrebbe penalizzare le aspettative che si sono appuntate sul Pd come partito della fusione "calda", promosso dal basso, frutto di una mobilitazione popolare), e con il sostanziale via libera di Francesco Rutelli, che per il momento sembra avere rinunciato, almeno nel breve periodo, alle ambizioni personali. Resta da vedere quindi se il partito che nascerà il prossimo 14 ottobre può effettivamente organizzarsi intorno a una sola, per quanto amplissima e totalizzante, proposta politica. Se intorno a Veltroni si costituirà uno spettro di correnti secondo uno schema democristiano. A dispetto delle valutazioni più fideistiche sul carisma di Walter, nel Nord è presente una forte aspettativa legata ai temi più tradizionali della sinistra riformista, come il lavoro, l’impresa, la competitività sui mercati, le liberalizzazioni, l’impulso alla concorrenza e alla sburocratizzazione. È davvero possibile ricondurre tutto questo a una candidatura unico? Nella sua intervista a "L’espresso" e nella lettera di martedì scorso a "La Stampa", Arturo Parisi ha confermato la sua concezione di un partito basato su un confronto esplicito, aperto, senza schemi precostituiti. Il principale ideologo del Pd, Michele Salvati, ha proposto sul "Corriere della Sera", con una lieve provocazione, la candidatura di Guglielmo Epifani contro Veltroni: un modo per segnalare la necessità che il "partito nuovo" nasca dalla dialettica e non dall’unanimismo, concludendo che se non c’è competizione, alle primarie del 14 ottobre «starò a casa». Nel frattempo però sono diventate fortissime le pressioni verso una soluzione unitaria. Piero Fassino ha frenato il possibile candidato Bersani chiedendo che non venga scalfita «l’unità riformista». A Milano, il sottosegretario Enrico Letta, compagno di strada se non "gemello" del ministro dello Sviluppo economico, ha sviluppato una piattaforma programmatica senza sciogliere i dubbi sul suo impegno diretto. Rosy Bindi ventila una candidatura di testimonianza, ma nel frattempo è in surplace. «Lanciare un partito nuovo», dice Salvati, «è stato un atto di coraggio. Ma ora questo coraggio non bisogna rimangiarselo». Anche perché, come sanno bene a Palazzo Chigi, il punto centrale e critico della candidatura di Veltroni riguarda il rapporto con il governo Prodi. Nel caso di una intronizzazione mediatico- plebiscitaria, il rapporto fra il leader designato Veltroni e l’esecutivo di centrosinistra diventa critico. Se invece parte il gioco delle candidature, con il Partito democratico che diventa un’arena di confronto, Prodi si può riparare a Palazzo Chigi in attesa del risultato, e proporsi ancora come una sintesi pratica fra le anime della sinistra moderata. In sostanza: con un Veltroni plebiscitato, sarà difficile mantenere una diarchia. Con un Veltroni sottoposto al vaglio democratico del voto delle primarie e a una competizione credibile, Prodi può prolungare se stesso: come un governo di garanzia, come un garante delle intese possibili in una politica che non è definita a priori. n

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