Le baruffe veneziane sono l’incidente che rivela un deficit di politica nell’Unione, come dice Massimo Cacciari? «Il centro-sinistra doveva capire che non può più concedersi il lusso di un’immagine schiacciata sulla magistratura», ha detto filosoficamente l’ex sindaco, dopo essersi ricandidato alla guida della città lagunare, in esplicita opposizione alla scelta «rossoverde» di Felice Casson. Certo, Casson non è un magistrato qualsiasi. Per la destra è la classica "toga rossa". È il pubblico ministero politicamente impegnativo del caso Gladio, delle indagini sull’eversione nera nel Triveneto, sulla strage di Peteano. È il pm della requisitoria sugli omicidi bianchi al Petrolchimico di Porto Marghera. L’autore delle inchieste ambientali sull’elettrosmog dell’Enel. Ma in ogni caso un magistrato che spacca di nuovo la politica. Solo quella veneziana? Oppure il caso Casson è un sintomo più profondo di una tensione dentro l’Unione, e in particolare nella federazione ulivista? Lo abbiamo chiesto a Antonio Di Pietro, il più famoso degli ex magistrati in politica. Massimo Cacciari ha detto che «non si è mai visto un pm che in due giorni si dà alla politica». «Devo richiamare un presupposto. Io sono fra quelli convinti che ci vuole una distinzione chiarissima, una separazione nettissima fra chi è in magistratura e fra chi fa politica. E vorrei segnalare che Casson si è dimesso dalla magistratura». Ma sempre Cacciari ha segnalato che sono passate «quarantott’ore» fra le dimissioni e l’annuncio della candidatura. «Però il distacco è avvenuto, non ci sono rischi di sovrapposizione, non c’è confusione di ruoli, non c’è ricatto psicologico sugli elettori. Si tratta di un uomo che ha tagliato il cordone ombelicale con il suo ruolo precedente. E quindi le considerazioni di opportunità sono fuori luogo. Ne parlo a ragion veduta, perché io mi sono dimesso dalla magistratura, e detto per inciso non è vero che l’ho fatto perché volevo entrare in politica: mi sono dimesso per fare l’imputato. Ma questa è un’altra storia». Quindi secondo lei la soluzione Casson è una soluzione adeguata, dopo il fallimento della candidatura dell’ex assessore Alessio Vianello. «Senta. Non vorremo mettere in discussione il diritto costituzionale di un cittadino di candidarsi, vero? E allora bisogna affrontare il significato politico di ciò che si è scatenato attorno a Casson. Stiamo parlando di una persona capace, competente, che conosce il territorio e i suoi problemi. Vogliamo discutere il fatto che un uomo come Casson utilizza in politica il credito guadagnato nel campo della giustizia? Ma questo succede ai protagonisti della televisione, ai docenti universitari, agli esponenti di molte professioni, agli avvocati, ai medici. Chi decide di entrare nell’arena politica capitalizza la notorietà e la stima guadagnata nell’attività precedente, e non mi sembra di avere assistito a molte esecrazioni in proposito. Quindi l’opposizione a Casson va giudicata da un altro punto di vista». Non perché è un ex magistrato. «No. Bisogna vedere piuttosto se c’è qualcuno che teme l’effetto Casson. Perché sicuramente lo teme il centro-destra. È una personalità che si è spesa nel territorio, e questa, a Dio piacendo, non è una colpa, è un merito. Ha acquisito una conoscenza approfondita, è competente, ha una sua visione anche particolareggiata delle cose: e quindi è un candidato altamente competitivo, che può vincere. Ipotesi che naturalmente alla Casa delle libertà non piace affatto». E allora perché Cacciari decide di ributtarsi nella mischia, creando questo dualismo imbarazzante nella Fed e nell’Unione? «Dentro il centro-sinistra i problemi derivano soprattutto da questioni di bottega. Il cosiddetto dualismo fra Cacciari e Casson non c’entra e non spiega nulla. Casson era un punto di sintesi che i partiti non riuscivano a trovare». Se non è dualismo, se non è scontro fra personalità, di che cosa si tratta allora? «Con Cacciari ho un’amicizia fraterna, un grandissimo affetto personale; ma questa volta devo dire, se mi permette un’espressione popolaresca, che l’ha fatta fuori dal vaso. Cioè ha perso di vista l’obiettivo. Perché l’obiettivo primario è battere la destra. Questo è sempre stato un punto fermo nel Cacciari-pensiero, lui ha sempre sostenuto la necessità di rafforzare ed estendere l’alleanza proprio in vista di questo scopo. E allora nonostante tutte le interviste e le dichiarazioni non si capisce bene la decisione che ha assunto». Magari c’è un male oscuro nel centro-sinistra. «Intanto bisogna dire che sul piano politico non c’è un diritto di primogenitura della Margherita nella scelta dei candidati. La scelta dei candidati non è una riserva di partito, e di un solo partito nella fattispecie. E se per un momento vogliamo restare sul piano personale, sottolineo che la storia politica di Cacciari è tutta iscritta nella logica del maggioritario. Mi ha sempre ripetuto che le ragioni parziali devono passare in secondo piano rispetto alla logica generale. E io ho accettato questa logica, pagando i prezzi dovuti, a costo di passare, agli occhi della destra, per "comunista". Comunista io! Per cui non è molto chiaro qual è la ragione che lo ha indotto a una decisione che divide». Proviamo a chiarirci le idee. «Ho l’impressione che Cacciari si sia fatto condizionare da un assetto dei poteri forti veneziani, da ambienti che non vedono di buon occhio un sindaco di sinistra. Per quanto mi riguarda, vorrei dirgli, con tutto l’affetto possibile, che preferivo il Cacciari unitario. Quando lo incontrerò, lo abbraccerò e gli dirò: Massimo, il vaso è più in là». Eppure lei è un moderato. L’Italia dei valori non è un partito di sinistra. Le eventuali preoccupazioni di Cacciari verso un sindaco troppo caratterizzato a sinistra potevano essere anche le vostre. «C’è un errore che mi sembra grave, da parte di Cacciari, che consiste nell’avere accettato la stretta logica di partito. Così fra l’altro ha messo in difficoltà anche me, proprio in quanto presidente di un partito come l’Italia dei valori. Ma come: io, rappresentando il mio partito, vado dal notaio a costituire l’Unione, superando differenze e sensibilità che inducevano alcuni dei nostri a restare fuori, mi spendo politicamente in chiave unionista, e lui decide in questo modo, determinando una spaccatura così vistosa? Noi sosteniamo Casson in nome della logica unitaria, e lui decide di candidarsi contro Casson? Quando è stato il caso, noi ci siamo comportati diversamente. Sul rifinanziamento della missione in Iraq, i nostri senatori avrebbero preferito l’astensione, ma in aula hanno votato secondo la decisione della maggioranza. Con il risultato che ora ci troviamo davanti a un paradosso che ha dell’incredibile: chi è fuori dalla Federazione è bipolarista, ragiona e agisce per irrobustire l’alleanza nel suo insieme; e chi è dentro la Fed induce divisioni». Romano Prodi ha parlato di un’«anarchia veneziana». Baruffe locali. È un giudizio riduttivo? «È un caso locale e nazionale. Perché a Venezia c’è sempre stato un ingente conflitto interno nell’élite politica ed economica. Per esempio ho avvertito questo conflitto quando ero ministro: indimenticabili gli scontri sulla variante di Mestre, chi la voleva così, chi più sopra, chi più sotto, chi non la voleva per niente. Fortissime lotte di potere nelle pieghe di una classe dirigente chiusa in se stessa. Con i risultati che poi si vedono». E fuori di Venezia, sul piano nazionale? «È un caso anche nazionale perché è il sintomo del cambiamento dei partiti. Che non sono più quelli di una volta. Il federalismo è intervenuto anche nella loro struttura, e qualche volta il centro conta poco rispetto alle realtà territoriali. Ma il federalismo è buono solo quando non è anarchico. Cioè se i partiti e le coalizioni non sono acefali. Altrimenti intervengono le soluzioni pilatesche, che non risolvono niente. E allora ci vuole una struttura dirigente centrale in grado di dire dei sì e dei no. In questo senso il mio invito a Prodi è di non considerarsi l’arbitro, ma il protagonista, l’uomo che prende le decisioni». Ma non è possibile che sotto sotto ci sia la vecchia discriminante anticomunista? Che fra Margherita e Ds problemi di questo genere siano destinati a covare sotto la cenere per divampare al momento meno opportuno? «Il nostro sistema politico è ancora in fase di assestamento, anche se non credo affatto che nell’azione di Cacciari sia riscontrabile un atteggiamento anticomunista. Sono però convinto che se, come tutti noi ci auguriamo, nel 2006 riusciamo a mandare a casa la destra, e specialmente Berlusconi, che è stato il federatore della destra e colui che ha determinato lo schema bipolare, assisteremo a una grande scomposizione e ricomposizione dei poli. Con Berlusconi sconfitto la destra non sta insieme. E a quel punto il rimescolamento potrebbe essere generale. Non vedo come, per dirne una, Clemente Mastella possa restare a sinistra, se la destra cambia formato e leadership». E dove resterebbe Antonio Di Pietro? «Prima vinciamo, poi parliamo».
17/03/2005