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Fascino falsario

20/03/2008

Si guarda "Italian Job", il programma in onda su La7 la domenica in prima serata, in cui Paolo Calabresi sperimenta il suo genere tv, le inchieste fiction, o lo scoop reality, quasi con un senso di colpa. Calabresi interpreta una parte, che può essere l’inviato di un’oligarchia russa spedito nel Sud per tentare di aprire un casinò grazie a compiacenze e favori politici; oppure il falso psicologo americano Joseph Nicolosi, l’autore di una cura riabilitativa dall’omosessualità; e magari il finto imprenditore che vuole l’annullamento del matrimonio dalla Rota romana. Soprattutto quando ci sono di mezzo politici di secondo o terzo livello, si vede l’atteggiamento compiacente, di qualcuno che forse si farà corrompere e forse no, ma intanto ci sta, approfondisce, riferirà a livelli superiori. L’imbarazzo è palese, perché anche se Calabresi è bravissimo, si ha la sensazione che l’imbroglio potrebbe toccare a tutti noi. E magari anche noi resteremmo lì incerti, attratti dall’abilità del trasformista Calabresi e dalla nostra personale ingordigia. Se poi invece di Calabresi si facesse viva con notizie bomba una graziosa ragazza, ammiccando a chissà quali possibili opportunità, saremmo sicuri di resistere alla tentazione, e non invece di finire in una situazione da "Scherzi a parte"? Per questo "Italian Job" è un esperimento spurio. Calabresi ideologizza, sostenendo che il falso scopre la verità. Ma basta ricorrere all’ermeneutica per sapere che il punto di vista modifica la realtà. La finzione non scopre la verità, instaura un’altra condizione. Per questo "Italian Job" diverte, ma alla fine è una macchina celibe, che racconta soltanto se stessa.

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