Guarda le squinternate che strillano per i premiati Lùnapop con la distrazione smagata di quello che ne ha viste troppe per stupirsi. Osserva con curiosità professionale il premiato rocker di Correggio Luciano Ligabue, maestro cantore di Lele Oriali, e benevolmente scuote la testa: «Continua a voler vivere da mediano: ma è una star, e lo sa». È fine luglio e l’hanno chiamato ad Aulla, al premio Lunezia per i testi delle canzoni, a ricevere il riconoscimento alla carriera. Perché in Italia c’è sua maestà Mogol, e su un trono a fianco c’è Franco Migliacci, classe 1930, una vita per la musica leggera. Per le ultime schiere del pop il suo nome è un’eco della memoria, ma Migliacci svolazza effettivamente dalle parti delle leggende. Fin dal momento dell’ispirazione estrosa di "Volare". Impossibile non chiedergli qual è il segreto di un successo mondiale. «Sulle canzoni ho una teoria in tre punti. Primo: possono nascere dalla cronaca, dalla realtà, come "Pasqualino marajà", ma anche "Che sarà", cioè "Paese mio che stai sulla collina", che era l’immagine della nostra casa di Cortona, vista con gli occhi di chi se ne va; oppure "C’era un ragazzo" in cui insieme a Mauro Lusini ho scritto il mio risentimento per una guerra che rifiutavo». Ci vuole versatilità per spaziare dal Pasqualino innamorato della bella indiana Kalì alla guerra del Vietnam che stoppa i Beatles e i Rolling Stones. «Sa che mi sono emozionato quando D’Alema l’ha cantata in tv con Gianni Morandi?». Ma non dimentichiamo la teoria paroliera: «Punto secondo: certe canzoni sono il pensiero di ciò che vorremmo che fosse. Tutti i brani d’amore sono così, da "In ginocchio da te" di Morandi a "Ancora" di Edoardo De Crescenzo. Amore eterno, un desiderio frustrato ma che illude sempre». Infine: «Punto tre: ciò che potrebbe essere. Una realtà alternativa: se la ricorda "Tintarella di luna"?». E come no, una siderale invenzione d’autore: "Tin tin tin, raggi di luna", come se il chiarore notturno si sciogliesse in una pioggia di monetine. «Ecco, proprio così. Scritta in tre quarti d’ora, per Mina, perché Modugno non l’aveva voluta». Allora ricapitoliamo. Francesco "Franco" Migliacci, padre cortonese maresciallo maggiore nella Guardia di finanza, nato per caso a Mantova ma fiorentino a tutti gli effetti. Iscritto a ragioneria: «Perché nel dopoguerra servivano geometri e ragionieri. C’era da ricostruire il paese, e quindi ci volevano quelli che mettevano su le case e quelli che facevano i conti. Ma io avevo in testa lo spettacolo. Invece di studiare andavo a fare il teatro vernacolare. D’altronde, visto che anche Modugno era un ragioniere fallito, ci dev’essere di mezzo il destino». Sbucano sempre fuori i baffi di Modugno. Inevitabile. «Insomma, scappo da Firenze nel 1952, e mi presento a un concorso a Tirrenia, dove Gioacchino Forzano aveva riaperto gli stabilimenti chiusi per la guerra. Donne stupende, uomini magnifici, tutti che imitavano gli americani. Io, un niente. Roba da far cadere le braccia. E invece vinco. Particina in un film con Nino Taranto». Un sogno che comincia? «No, la produzione che fallisce». Sì, ma Modugno? «Mi danno una partecipazione in un film di Francesco De Robertis, "Carica eroica". A me tocca la parte di un attendente, toscano ovvìa. Il pugliese Modugno interpreta l’attendente siciliano, minchia. Il marketing di allora richiedeva le parti regionali». Nascita di un sodalizio. Un giorno Modugno lo invita a Fregene con due ragazze, ma poi lo scarica perché di ragazze ne è rimasta una sola (che sarebbe poi la futura moglie Franca Gandolfi). Migliacci per la delusione si scola una bottiglia di Chianti, e al risveglio rimane stregato da una riproduzione di Chagall sul muro, "Le Coq Rouge". Butta giù un incipit: «Di blu mi son vestito per intonarmi al cielo». L’idea sembra interessante, ma la metrica non sta nella musica. «Ci ho messo sei mesi per capire come si costruisce una canzone. Ma alla fine è venuta fuori "Nel blu dipinto di blu". Ammessa al Sanremo del 1958 con 99 voti su 100 della giuria selezionatrice. Un delirio, nell’Italia eccitata dal boom, con la gente in teatro che impazzisce, ride, piange. Ventidue milioni di copie vendute nel mondo dal solo Modugno. Ma la prima vera sostenitrice di "Volare" era stata Virna Lisi, in compagnia con noi. E la consacrazione venne da Massimo Mila, che disse: "Modugno non è una voce che canta: è un uomo che canta"». Eppure Mimmo voleva fare l’attore. «Andiamo anche in America: vicino a Los Angeles incontriamo Elvis Presley che ha inciso una nostra canzone, "Io". Quando gli stringo la mano, mi tremano le gambe. Un altro mondo: sul marciapiede si incontra Cary Grant, fuori dagli studios si vede Alfred Hitchcock che si porta dietro un cartoccio di sedani. Alla Paramount la faccia di Modugno piace, e gli dicono: "Resta qui, ti facciamo diventare un grande caratterista". E lui quasi si offende, perché si considerava il perfetto latin lover». Rottura con Modugno. «Per lui avevo scritto "Libero", "Selene", "Addio addio", con cui Mimmo rivinse a Sanremo in coppia con Claudio Villa nel 1962. Era istintivo, generoso, infiammabile. Aveva una sua cultura. Ci si trovava a piazza del Popolo e si discuteva per ore. Io, Pavese, Moravia, e Sartre, perché l’esistenzialismo, allora, era irresistibile. Lui Pavese, Sartre, il suo Sciascia. Personalità enorme, ingombrante. "Tintarella di luna" era rimasta nel cassetto due anni: quando la sentì dai Campioni, il gruppo che accompagnava Tony Dallara e che poi avrebbe avuto come chitarrista Lucio Battisti, cominciò a sfottermi: "Fai bene, dalle pure agli altri, le canzoni". Alla lunga, ho cercato una strada mia». Successi rotolanti con Gianni Meccia, "Il barattolo", e con una Milva piuttosto fatale, "Quattro vestiti". Finché un giorno non lo chiama Nanni Ricordi dalla Rca e gli dice: «Vieni qui, c’è qualcosa che devi ascoltare». Erano i provini di un ragazzino che imitava Adriano Celentano, ma con che passione. «Così decidiamo di vederlo. Siamo nel bar della Rca, e in controluce si vede arrivare il giovanissimo Gianni Morandi, una specie di bambino che dondola sulle ginocchia, le braccia lunghissime, le mani enormi. Decidiamo di provare a lanciarlo, solo che nessuno voleva scrivere per uno sconosciuto. Allora ho trovato una canzone di un emigrante, un tale che si faceva chiamare Tony Dori, e taglia e cuci abbiamo messo insieme con Mario Cantini, un funzionario della casa discografica, "Andavo a cento all’ora"». Sorpresa, 60 mila copie. «Avevo capito che in America avevano cominciato a puntare sul mercato degli adolescenti. Erano venuti fuori i cantanti per i giovani, Paul Anka, Neil Sedaka. E allora con Morandi, per battere il ferro, mettiamo subito in cantiere "Fatti mandare dalla mamma", che più generazionale non si poteva». E poi un diluvio: la "trilogia", orchestrata da Ennio Morricone, composta da "In ginocchio da te", "Non son degno di te", "Se non avessi più te". E anche qualche scarto verso l’impegno, con il Vietnam e "Un mondo d’amore": «Quando l’ha cantata Joan Baez all’isola di Wight, dopo "C’era un ragazzo", anche qui, quasi svengo per l’emozione». E vogliamo parlare di Rita Pavone, di "Come te non c’è nessuno" e "Che m’importa del mondo"? Di Fred Bongusto e di "Una rotonda sul mare"? Ma con Morandi c’era una sintonia particolare, testimoniata anche dal musical che Migliacci avrebbe scritto per lui, "Jacopone da Todi". Il fatto vero però è che in quel periodo Migliacci è il cacciatore di successi, il talent scout, quella figura professionale nuova che è il "produttore". Nada, i Ricchi e Poveri (proprio con l’inno nazionalpopolare "Che sarà" diffuso in tutto il mondo latino da José Feliciano), e soprattutto Patty Pravo: «"La bambola" fu proposta in successione ai Rokes, a Little Tony, alla Cinquetti. La madre di Gigliola inorridì: "Mia figlia non è una bambola!"». Scalata continua alla hit parade. «La crisi venne annunciata dal beat, poi approfondita dai cantautori. Rottura epocale: Morandi in fondo al tunnel, la Pavone oscurata. Eppure ci sarebbe stato spazio per tutti. Ho dato a Gianni la canzone del ritorno, "Uno su mille", che è diventata la sua sigla. Ho scritto una commedia musicale su Pinocchio per Enzo Cerusico. Ho fatto fare il primo disco a Renato Zero. Quando mi è venuta voglia, ho messo giù le parole di "Mazinga" e "Heidi". Se resiste la passionaccia, si può fare tutto. Di recente ho scritto con Morricone il "Cantico del Giubileo", eseguito da orchestra e coro dell’Accademia di Santa Cecilia, in cui con una certa incoscienza ho riassunto duemila anni di cristianesimo: "Venne Gesù e amore fu storia infinita". Anche i cardinali sono rimasti soddisfatti di questa sintesi». Cattolico, credente, osservante? «A modo mio». Politicamente? «Ho sempre simpatizzato a sinistra. Per noi Balilla il crollo del regime fu una delusione terribile, la fine degli ideali: ne occorrevano degli altri e mi sono affezionato a chi poteva offrirli. Ho conosciuto Gianni Rodari, a cui piaceva come disegnavo, che mi ha fatto fare un "piedino" sul "Pioniere", il Corrierino dei piccoli comunisti. Non cambio idea, anche se nel frattempo è cambiata la sinistra». Ci sarà stato pure qualche buco, nella sua storia professionale. «Io mi vanto di saper riconoscere un successo all’impronta. Ma all’inizio non avevo capito le potenzialità di Fred Bongusto: ho recuperato più tardi con "Una rotonda sul mare". Il fratello di Celentano, Alessandro, mi aveva segnalato Al Bano, e non ci ho creduto. Colpa mia. Eros Ramazzotti ha raccontato di essere stato scartato da me, ma io non ricordo di averlo mai visto, e lui non ha specificato i particolari di questo incontro». E il panorama attuale? «Mi piace sempre Vasco Rossi, fin da quando fece "Vita spericolata" a Sanremo nel 1983 e mi accorsi che respirava l’aria nuova. I fuoriclasse si vedono subito. Anche se ho puntato su qualcuno come Scialpi, che era bravo ma fragile. Seguo quelli che hanno ironia, Daniele Silvestri, Samuele Bersani. Se riascolto Paolo Conte mi commuovo». Nell’era dei Lùnapop si fa fatica a trovare un nuovo Modugno, un nuovo Morandi. Non è che anche il vecchio drago rischia di restare fuori dal giro? «Senta, alle spalle ho una carriera lunghissima. Ho scritto anche una canzone per Alberto Sordi: "Te cianno mai mannato a quer paese…". Se non hanno più bisogno di me, mi ci mandino. Al paese si sta bene. Sa, paese mio che stai sulla collina… Eccetera».
17/08/2000