Alberto Moravia teneva accesa la tv su uno dei canali musicali in cui apparivano i primi videoclip, dove si sbizzarrivano fantasie alla ricerca di uno choc visivo: «Una forma di surrealismo minore», li definiva. Non occorre riandare a Disney per sapere che l’incrocio fra musica e immagini, fra melodie, ritmi e film è sempre stato un modo per esaltare la musica e per farla diventare a due dimensioni. Anzi, nei casi più elaborati si è assistito al tentativo di creare un mondo particolare: basti pensare all’iconografia beatlesiana del Sottomarino giallo e della banda del Sgt. Pepper; oppure alla narrazione targata Pink Floyd di "The Wall", dove l’artificio del disegno animato traduceva la musica in piccole icone, cammei e frammenti mitologici. È la tecnica che ha portato al capolavoro di John Landis, "Thriller" con Michael Jackson, in cui la reinterpretazione dell’universo horror si trasforma in estetizzazione pura (qualcosa di simile a quello che farà più programmaticamente Quentin Tarantino con i due "Kill Bill", ad esempio). Perché attraverso la musica si definiscono soprattutto sistemi di fissazione del trend: Madonna che esplora la corporeità dell’America neolatina esibendo un feticismo cristianista orientato al sexy è forse l’esempio più rilevante. Tanto che mentre oggi i Rolling Stones continuano a esporsi nei video come "band", cioè mimando la tradizione, la signora Ciccone, con "Confessions on a dance floor" recupera sequenze in cui il ballo è una dichiarazione di identità. Come in un "Flashdance" del nuovo millennio, in cui non c’è trama ma solo l’ideologia del quattro quarti.
20/04/2006