Se si trattasse di una questione di fisica teorica potrebbero chiamarlo il "paradosso Fini", e ci sarebbero equazioni complicate che descriverebbero un fenomeno semplicissimo quanto indecifrabile. Ma poiché invece si tratta di una questione politica, non ci sono spiegazioni attendibili. Non resta che prenderne atto, come si fa davanti ai grandi misteri: il presidente di Alleanza nazionale, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Gianfranco Fini sarà pure chiacchierato, discusso nelle analisi da bar, spettegolato dai suoi numeri due, le sue qualità politiche contestate; eppure la sua popolarità non ne risulta affatto scalfita. Il destino sembra avere una predilezione strana e singolare per il capo di An: Fini può sbagliare qualsiasi mossa, cannare ogni decisione, infilare errori virtualmente catastrofici, eppure c’è qualche divinità politica, un arcano potere come diceva Walter Matthau in "Prima pagina", che gli tiene una mano santa sul capo. Anche gli ultimi sondaggi infatti mostrano che Fini è l’uomo di governo che gode dell’indice di fiducia più alto, superando di dieci punti il cauto ministro degli Interni Beppe Pisanu e di 13 l’avvenente Stefania Prestigiacomo. Mistero misterioso, per l’appunto. Da quando ha sgarrato rispetto al codice culturale, ideologico e politico di An, annunciando i suoi "sì" al referendum sulla fecondazione assistita, è apparso sintomatico che Fini sta perseguendo un disegno tutto suo, che sembra prescindere largamente dal destino politico di Alleanza nazionale. A ricapitolare le mosse del leader, si deve prendere nota di una serie di choc che hanno squassato un partito tradizionalista come il suo. Ad esempio, il riconoscimento del fascismo autore delle leggi razziali come il male assoluto aveva agitato dolorosamente un partito ancora legatissimo alle proprie radici, quali che siano: eppure si è poi visto che tutti coloro che minacciavano sfracelli, a cominciare da Francesco Storace, e avevano promesso tempeste e burrasche, alla fine hanno prodotto brezze e zefiri. Ogni volta che il presidente di An ha alzato la voce, tutti i colonnelli del partito hanno prima annunciato pronunciamenti e "alzamientos" contro una leadership così personalistica da risultare fastidiosa anche per gente che ha il culto dell’autorità. Dopo di che, i presunti "rebeldes" si sono messi in posizione prona ad aspettare la volontà del capo, «fai di noi ciò che vuoi». Anche quando Fini ha offeso sanguinosamente i suoi numeri due, definendo le correnti «una metastasi», dopo la prima immediata e violenta ribellione essi si sono accontentati delle modeste ragioni elencate dal numero uno nella replica, evitando di approfondire un conflitto che sembrava insanabile. Evidentemente ci dev’essere nel partito un riflesso condizionato che viene dal Novecento, secondo cui "il capo ha sempre ragione". Altrimenti non si capisce come mai un esponente di spicco come Maurizio Gasparri, autore di una legge fondamentale sul sistema televisivo (fondamentale per questo governo, naturalmente) sia stato "ritirato" dal governo Berlusconi-bis, dopo una notte di tregenda e di intrighi, e con quale faccia si sia acconciato ad accettare la ghigliottina di Fini, cominciando subito il comizio per annunciare che la propria destituzione significava il rilancio dell’azione politica del partito. Non si comprende neppure come sia stata accettata la nomina di Giulio Tremonti a vicepremier, dopo che un anno fa Fini aveva chiesto e ottenuto la sua testa con l’accusa e arma "fine-di-mondo" di presentare conti truccati. Invece è facilmente comprensibile che il trio caffettiero dei convitati di Piazza di Pietra (Altero Matteoli, Ignazio La Russa, di nuovo Gasparri) si sia lasciato andare a indispettite chiacchiere da caffè sulla solidità fisica, psicologica e politica del loro presidente: è tipico dei regimi assoluti concedere ai subordinati il diritto alla mormorazione. Anche sotto il fascismo vigeva il "ius murmurandi", come succede alle dittature temperate dalle barzellette. L’importante è non farsi individuare da una spia dell’Ovra o, con maggiore senso dell’attualità, da uno stagista del "Tempo". Ciò che è meno comprensibile è la passività con cui i maggiorenti di An hanno accettato la vendetta-tremenda-vendetta di Fini, che li aveva subito minacciati con voce gelida, «vi farò sputare sangue, ve la farò pagare». Detto fatto: vertici di An annichiliti, cariche azzerate, deleghe ritirate con un gesto imperioso anche quando non erano mai state affidate. In qualsiasi altro partito un simile repulisti avrebbe provocato un’insurrezione. Dentro An ha suscitato una diceria di malumori semiclandestini. Qualcuno si è tolto di mezzo, come il "democristiano" Publio Fiori, suscitando commenti quasi togliattiani tipo «Publio se n’è andato e soli ci ha lassato». Il senatore e professore Domenico Fisichella continua nella sua incessante contestazione della linea politico-culturale del partito, che a suo giudizio è uscito dal solco delle ispirazioni originarie (Fisichella non ha mai potuto digerire la corrività politicante con cui la leadership di An ha accettato di sostenere un progetto costituzionale fondato sulla devolution leghista). L’unica spiegazione ragionevole del "paradosso Fini" è che il presidente di An è lanciato ormai in una corsa propria e personale che ha poco che fare con il suo partito. Ha sistemato, dicono, con un corso intensivo i suoi problemi con l’inglese; assapora le soddisfazioni flautate che gli sono state aperte dal legame con i costituenti europei, Valéry Giscard d’Estaing e Giuliano Amato; cura con attenzione pignola l’abbronzatura e l’acconciatura, coprendo con sapienza i diradamenti; al massimo gli sfugge qualche sconvenienza con le sigarette accese nervosamente in luoghi no smoking. Nella lotta per la successione a Silvio Berlusconi, si è posto ai blocchi di partenza di fianco al cattolicissimo Pier Ferdinando Casini, differenziandosi in chiave laica con la posizione inattesa assunta sui referendum. Ma Fini sa benissimo che come capo di An, nonostante tutte le svolte e le virate degli ultimi mesi, ha bassissime possibilità di ambire alla guida della Casa delle libertà ed eventualmente del governo. Come ha segnalato uno dei migliori esperti della destra italiana, il politologo Piero Ignazi, per uscire dal suo paradosso, l’eclettico Gianfranco ha bisogno «di una mossa del cavallo, di una iniziativa che scombussoli il panorama del centro-destra, che gli tolga definitivamente l’etichetta postfascista e postmissina», e quindi una subalternità implicita. Dato che non può cambiare lui, la sua cultura, i libri che ha letto e quelli che ha evitato, gli amici che ha frequentato e quelli che ha smesso di frequentare, la sola possibilità razionale sembra consistere nel cambiare il contenitore. Cioè fare confluire Alleanza nazionale dentro un soggetto nuovo, il partito nazionale dei moderati. Questo significherebbe il definitivo ridimensionamento della classe dirigente di An, che proviene quasi interamente dal Msi. Per preparare la gerarchia del partito al purgatorio futuro, Fini intanto l’ha spedita all’inferno. Dopo i pettegolezzi romani della Caffetteria, Alleanza nazionale assomiglia a un non-partito, con un leader "legibus solutus" e una classe dirigente fatta di carneadi. I nuovi ufficiali che hanno sostituito il "colonnellume" (definizione del ministro delle comunicazioni Mario Landolfi) non sembrano impersonare una struttura di comando plausibile. I muscolari Marco Martinelli e Roberto Menia (nel cui sito Internet figura la confessione: «Amo i gatti e non dimenticherò mai il mio gatto nero, Lucifero, che non c’è più») non sembrano proporsi per un futuro politico importante; i più "politici" Andrea Ronchi e Donato Lamorte sono ottime terze file. Tutti insieme testimoniano di una condizione emergenziale, che a un certo punto dovrà sciogliersi. Perché sciogliendosi il dilemma di An si scioglierà anche il paradosso di Fini. Un leader cinquantenne, che ha davanti a sé un po’ di tempo, ma non tantissimo (un giro di giostra, non di più); diverse opportunità, ma molte di queste chiuse da Casini. E sinora Fini ha dimostrato di saper agire con perfetto cinismo politico dentro An; adesso si tratterebbe di vedere se il poliedrico Gianfranco è capace di lavorare "contro" il suo partito: malgrado il suo pragmatismo radicale, non è detto che a cinquantatré anni, per reinventare se stesso, Fini sia capace di buttare a mare la propria storia, il proprio passato, il proprio partito. Certo, se ce la facesse, l’Italia avrebbe inopinatamente guadagnato un leader.
11/08/2005