Finora la Sicilia di Andrea Camilleri era possibile solo immaginarla. Oppure osservarla nel ritratto e nelle ricostruzioni della fiction televisiva; certo, si poteva anche lasciarla scorrere, quasi come un film naturale, una pellicola psichica, sullo schermo della fantasia. Ascoltarla no, non era possibile, anche se qualcuno, quando esplose al livello di massa il "fenomeno Camilleri", ipotizzò che sarebbe stato impagabile ascoltare quelle "stories" sicule dalla viva voce dello scrittore. Certo, la voce di Camilleri, impastata dal fumo, arrochita dalle sigarette, è sempre apparsa perfetta per raccontare la Sicilia profonda di Vigàta, luogo della mente e sede di una cronaca che prova a farsi mito, e ancora storia: nella lentezza della scansione, nella perfetta sicilianitudine delle consonanti e delle vocali, nella pigra sillabazione di quel linguaggio miracolosamente sospeso fra il moderno e l’arcaico, si ritrova un’isola che non c’è, ma che in realtà è un continente, uno spazio che attraversa i secoli: e anche strati di cultura, sedimentazioni di antropologia, la Magna Grecia e la mafia, la tragedia e l’ironia, e alla fine il suo profilo appare e scompare proprio come un sottile filo di fumo, sull’orizzonte del mare; oppure sul confine estremo del fantasticare, in una controra narrativa che richiama figure e personaggi dalla trama di quella Sicilia apparentemente immutabile. Lo stesso romanzo che appare in questa nuova iniziativa, "Un filo di fumo", introdotto allusivamente dal celebre verso della "Butterfly" pucciniana, sembra perfettamente adeguato per ritrovare le tracce, i segni e gli indizi di quella Sicilia forse introvabile, ma che comunque ha lasciato le sue impronte sulla letteratura, sulle mentalità, sui comportamenti, perfino sugli stereotipi. "Un filo di fumo" infatti è un breve romanzo pubblicato da Garzanti nel 1980, e ripubblicato da Sellerio nel 1997 (oggi è giunto in prossimità delle trenta edizioni, a riprova che Camilleri non è soltanto uno scrittore di polizieschi destinati ai serial televisivi). Procede di lato, infatti, rispetto al personaggio più famoso di Camilleri, l’ineluttabile commissario Montalbano, ed è per questo che forse consente di gettare uno sguardo (o forse meglio prestare un orecchio) alla letteraria, ma non solo letteraria, Sicilia camilleriana. Chi possiede quel piccolo volume, sa che riporta ancora in appendice un lessico siciliano, una summa del particolare linguaggio di Camilleri. Annota lo scrittore, lievemente esponendo la sua sornioneria: «Livio Garzanti volle pubblicare questo mio romanzo risolvendo le perplessità di alcuni suoi eminenti collaboratori. Mi domandò però, quasi a guardarsi le spalle, un glossario». Oggi il glossario sarebbe in fin dei conti superfluo, perché per intuito o per abitudine di lettura le specialità regionali della lingua di Camilleri sono diventate un patrimonio condiviso, che si può citare come elemento di riconoscibilità, con cui si può scherzare in una conversazione serale. Ma occorreva ancora sentirle risuonare, queste parole, avvertirne il fascino acustico, anzi, l’eco suggestiva della vita e delle storie che esse contengono. L’idea di ricorrere all’arte popolare e sopraffina di Rosario Fiorello è ad un tempo originale e necessaria. Originale perché induce immediatamente a mettere a confronto due grandi di Sicilia, il fantasista e lo scrittore. Due figure che si stagliano idealmente quasi come due pupi in un teatrino. Due eroi popolari che si misurano secondo la loro disciplina. Lo spadaccino Fiorello, il guascone destinato a diventare moschettiere dopo una specie di epopea dumasiana dell’intrattenimento, il talento assoluto capace di fare il verso a tutti o a tutti di dare un verso. Di imitare a "Viva Radiodue" Carlo Azeglio Ciampi ma anche Gianni Minà, e naturalmente Camilleri, «il noto scrittore siciliano» delle telefonate più esilaranti. Chi ascolterà la lettura di Fiorello non potrà non apprezzarne il ritmo, e l’aderenza perfetta al racconto. Si riconosce il clima, l’ambiente della Vigàta di fine Ottocento. È una storia che riporta a paesaggi e a psicologie che sembra di interpretare facilmente, in quanto appartengono anche al nostro impoverito immaginario di non siciliani. Echi di Aci Trezza, suoni di Tomasi di Lampedusa, risonanze di una Sicilia inventata che diventa più reale di quella effettuale. E soprattutto una Sicilia che trova una voce, una musica, uno sfondo "sociale", una personificazione. Per questo si è parlato di necessità. Fiorello infatti non è soltanto un performer. La sua demoniaca abilità di aderire al racconto, di scrutarne le pieghe e le svolte, trasforma in effetti la vicenda di un commerciante di zolfo prepotente e losco in un rendiconto corale, uno spezzone di realtà che dal vecchio Ottocento rimbalza fino a oggi. L’impressione è che il multiforme Rosario sia riuscito a prendersi tutta la Sicilia, e a farla parlare, con quell’inflessione antica e sempre nuova, e stupefacente, perché stupisce in ogni accento: che non recita il dialetto, ma dà un suono a quell’«italiano regionale», nobilitato dalle analisi di Tullio De Mauro e restituito oggi a una specie di universalità sonora. E poi c’è la presenza di Camilleri, il protagonista nascosto. Non soltanto lo scrittore, che conosciamo benissimo: è uno sceneggiatore fantastico, anche lui diabolico nell’immaginare e stendere storie paradossali che alla fine si rivelano reali, o più vere del vero. Chi lo ama ne apprezza ogni volta lo stile apparentemente dimesso, umile perché al servizio della trama, che tuttavia si illumina all’improvviso, in una trovata stilistica, in un colpo di talento dell’immaginazione narrativa. Eppure la presenza di Camilleri è reale. Nel senso che si sente la sua voce che interviene associandosi a quella di Fiorello che sta sfumando: e questo sovrapporsi e sostituirsi conferisce al racconto una specie di piccolo choc rivelatore, qualcosa come un’emozione supplementare, un’altra verità in più. Sembra quasi che nel momento in cui la voce dell’autore interviene nella narrazione, tutto si compia: il racconto trova la sua conclusione più appropriata, la Sicilia trova le proprie parole e una voce, anzi due; e l’ascoltatore può lasciarsi prendere dall’incanto di una storia che, volendo, è pronta per ricominciare. Perché si sa che è sempre stato un piacere ulteriore e sommesso, quello di riprendere un libro da capo, dopo averlo letto, e riandare a vedere ciò che si è perso e ciò invece che è restato aggrappato alla memoria. Qui basta un clic sul tasto "play", e l’intera vicenda può ricominciare: per risentire Fiorello che tenta tutte le corde della propria vocalità, per risentire le musiche di Rava, Sellerio, Damiani, Leveratto. Il suono di una voce, di due voci, di un coro. Il suono e la parola di un’isola. n
08/06/2006