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Fortino palazzo Chigi

28/06/2007

Un assedio. La coalizione di centrosinistra con i leader ammaccati dalle intercettazioni e dai verbali degli interrogatori di Stefano Ricucci. Il sospetto serpeggiante anche nella famiglia diessina che Piero Fassino e Massimo D’Alema fossero iscritti in un "concerto" che spartiva pezzi di economia fra sinistra e destra, Bnl da una parte e Antonveneta dall’altra, con sullo sfondo la possibile "finlandizzazione", cioè una neutralizzazione spartitoria, del "Corriere della Sera". E il governo Prodi protagonista involontario della più colossale caduta di consenso che si sia mai vista nella storia della Repubblica. Il premier fischiato in ogni occasione, anche dalla platea che si immaginava non ostile della Confesercenti. Le regioni del Nord che alle amministrative consegnano il foglio di via al centrosinistra, indicando percentuali intorno al 30 per cento. È la fine di una stagione? Per capirlo si può tentare di penetrare nel quartier generale del governo, sentire gli umori, raccogliere le valutazioni delle persone più vicine al premier. Ascoltare un grido di dolore silenzioso. Guardiamo alle condizioni di scenario, dicono le voci di Palazzo Chigi. I politologi sostengono che il governo è impopolare perché al Nord si aspettavano libertà e hanno avuto tasse, mentre al Sud si attendevano trasferimenti pubblici che non sono arrivati. Il governo vittima delle aspettative asimmetriche. Ma ci sono anche ragioni più strettamente politiche. I Ds sono in condizioni preoccupanti. La scissione di Fabio Mussi a sinistra. E nel partito il diffondersi di un cattivo pensiero, l’idea o l’esorcismo di un complotto che viene da lontano, ossia che tutto vada fatto risalire alle esternazioni di Arturo Parisi due anni fa, quando l’attuale ministro della Difesa accennò al possibile riemergere di una «questione morale» a sinistra. Non gliel’hanno mai perdonata, a Parisi, come se quella fosse la prova di una grande macchinazione e la dimostrazione implicita che a ordirlo fossero stati loro, gli ulivisti fondamentalisti, i prodiani, l’école parisienne. Ma non ci sono difficoltà soltanto sul fronte diessino: non passa giorno senza che Francesco Rutelli attacchi pesantemente la politica economica e fiscale del governo, e questo alimenta dubbi sul futuro. A quanto si capisce, se cade Prodi potrebbe esserci un governo di transizione più o meno lunga: che cosa succede del Partito democratico in questo caso? Bisogna chiedersi che cosa accadrebbe se crollasse il governo: rischierebbe di cadere anche il bipolarismo? In questo caso i Ds porterebbero a casa solo guai, mentre per le frange centriste della coalizione si creerebbero delle opportunità. A pensar male si fa peccato, ma si va vicini alla verità. Naturalmente, ironizzano i Chigi-ultras, non c’è nessun complotto prodiano o parisiano. C’è un clima di rifiuto della politica, che ha avuto un detonatore nel libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, "La casta", e c’è la crisi di credibilità del governo. Tuttavia bisognerebbe fare un modesto ragionamento ed elencare qualche dato fattuale: allora, abbiamo una crescita del Pil al 2,3 per cento; l’inflazione è la più bassa d’Europa, mezzo punto sotto la zona euro; i conti pubblici sono sotto controllo; la disoccupazione è la più bassa da quindici anni; abbiamo dato alle imprese il taglio del cuneo fiscale; siamo usciti elegantemente dall’Iraq; siamo al comando di una forza di pace in Libano che ha rappresentato anche simbolicamente una discontinuità netta rispetto all’unilateralismo americano e al conformismo americanista della destra italiana. E allora, dice la voce profonda di Palazzo Chigi, qualcuno dovrebbe provare a spiegare come fa una somma di elementi positivi a trasformarsi, nella percezione pubblica, in un disastro. Tanti dati buoni che danno come somma una catastrofe. Se questi risultati li avesse fatti Berlusconi, avrebbe inneggiato a se stesso e ai suoi miracoli. Noi, invece, è chiaro che agli occhi del mondo siamo gente di qualità mediocre: abbiamo risanato sì, ma dal lato delle entrate, come dice il governatore Draghi, cioè con le tasse; e il risanamento c’è, ma è congiunturale, dice la Confindustria: un saldo di bilancio, non una messa in efficienza dei comportamenti statali. Certo, insistono i prodiani, non possiamo rispondere alla crisi di rigetto del paese dicendo che non sappiamo comunicare. Ci sono ragioni più serie. Se guardiamo alle elezioni amministrative di fine maggio, ci accorgiamo che avevamo il territorio e non l’abbiamo più: cominciano a diventare contendibili anche aree di insediamento politico che prima erano indiscusse, in Liguria, Emilia, in Toscana, in Umbria. Il fatto è che noi ulivisti per dieci anni abbiamo coperto la malattia dei Ds, con l’Ulivo: ora che l’Ulivo non funziona più ce la faremo con il Partito democratico? È l’ultima chance. In ogni caso, nessuno grida alla cospirazione delle lobby economiche e dei potentati mediatico- finanziari; ma c’è da considerare quella che Giulio Santagata, ministro per l’Attuazione del programma, ha definito «la debolezza dei poteri forti»: i quali poteri per ovviare alla loro fragilità hanno interesse a puntare sull’indebolimento della politica. Con effetti anche clamorosi, perché Gianfranco Fini che riceve gli applausi dei giovani industriali quando difende il Pra dalle liberalizzazioni di Bersani dà un segno di che cosa significa il corporativismo. Questo è l’elenco dei mille dolori. Adesso si tratta di vedere quali sono gli strumenti per cercare di uscire dall’impasse. Le "cartucce" da sparare, come dicono nell’entourage prodiano, cioè la dimostrazione che il governo è in grado di decidere e decide. La prima cartuccia è la Tav, che sembra giunta a una soluzione onorevole. Consideriamo anche che il governo è dovuto intervenire su problemi lasciati marcire da Berlusconi, e quindi difficili da trattare: il Mose a Venezia, ripreso dopo che era stato messo in abbandono, i rifiuti a Napoli. Però pensiamoci, abbiamo chiuso la Maddalena in ottimo ordine, siamo alla guida di 13 mila uomini in Libano, siamo venuti via dall’Iraq in modo perfetto, come ha riconosciuto anche Bush: E allora, spiegateci il mistero: Zapatero esce traumaticamente dalla guerra ed è un eroe, noi usciamo con un passo di danza, con tutti i crismi e il rispetto dell’alleanza e siamo delle caccole. Bene così, ma c’è qualcosa che non si spiega. La seconda cartuccia consiste nel chiudere bene i tavoli della concertazione. Che significa due questioni principali: pensioni e ammortizzatori sociali. Sulle pensioni si deve sapere che l’abolizione dello scalone costa circa 9 miliardi, e quindi serve a poco fare la voce grossa, come ha fatto il segretario della Cgil Epifani in apertura di trattativa. Occorre una soluzione. Nel frattempo però si interverrà sulle pensioni minime, per far tirare un respiro ai pensionati da meno di 500 euro al mese: con l’extragettito si aumenteranno le pensioni minime di una trentina di euro, e il primo anno arriveranno tutti in una tranche, 350-400 euro in un colpo solo, sicché anche loro si accorgeranno che non facciamo promesse a vuoto. Quanto agli ammortizzatori sociali, si lavora sulla "totalizzazione", cioè sulla possibilità da parte dei lavoratori precari di ricongiungere periodi di contribuzione anche saltuari. Dopo di che, l’appuntamento principale è il prossimo Dpef, che rappresenta un momento centrale perché mostrerà che l’azione del governo ha dato i suoi frutti. Potrà portare a una finanziaria senza manovre e senza la minaccia di tagli e amputazioni, e potrà anche mostrare l’intenzione di tagliare le tasse a chi le paga. Adesso a Palazzo Chigi aspettano con un certo ottimismo i dati sull’autotassazione, che sembrano promettenti e in grado di sostenere una politica seria di riduzione del peso fiscale. Nel frattempo, anche pochi ringraziano, si taglia l’Irap del 26 per cento: «Questo governo di incapaci opera un intervento fortissimo sulla tassazione alle imprese». Altra cartuccia, l’intervento sui costi della politica: che era uno dei punti di attacco della politica prodiana, e che in questo clima diventa una manovra quasi soltanto difensiva. Comunque, c’è in atto un coordinamento fra cinque ministeri, per riuscire ad armonizzare misure di trasparenza e di sfoltimento degli organismi politici e parapolitici. Ma quanto ai costi della politica, dicono i Chigi-pasdaran, sarebbe il caso di non dimenticare che i liberista Berlusconi ha fatto due contratti del settore pubblico con un aumento di oltre il 5 per cento. Fra le curiosità, all’ultimo G8 si è scoperto che non avevamo saldato tutte le rate del Global Forum sull’Aids, che era stato voluto da Berlusconi in persona. Ma la cartuccia vera, e qui i Prodi boys traggono un sospiro fra la speranza e la rassegnazione, è il Partito democratico. Adesso, dopo che Michele Salvati aveva auspicato un atto di coraggio da parte del premier, Prodi lo ha preso alla lettera e ha dato via libera all’elezione diretta del leader. Se lo ha fatto, vuol dire che si è reso conto che si era sviluppata una battaglia potenzialmente letale fra due partiti, uno ufficiale, i "bipolaristi", e uno clandestino, gli "inciucisti". La decisione di accelerare sul Partito democratico nasce evidentemente dal timore che il partito inciucista potesse approfittare delle more in cui si trovava il Pd per tentare altri giochi, altre manovre. Senza rendersi conto, dicono i bipolaristi purissimi di Palazzo Chigi, che progettare e realizzare governi di larghe intese con Berlusconi significa consegnargli l’atout per scegliere il momento del ritiro della fiducia e andare alle elezioni alle sue condizioni. Quindi? Resistere, resistere, resistere. Sapendo che ogni giorno può portare l’incidente fatale. E che il risentimento diffuso contro il governo è altissimo. Ma con l’idea che si può ancora risalire la china. A testa bassa, con la classica ostinazione di Prodi. Perché molti non capiscono, dice l’ultimo dei resistenti, che se cade il governo Prodi non c’è un’alternativa e non c’è lieto fine. È il fallimento del centrosinistra, dell’Unione, di tutta una classe dirigente: e allora ne riparleremmo fra vent’anni. n

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