Quattordici, ‘o Mbriaco. Ventitré, ‘o Scemo. Ventotto, ‘e Zizze. Trenta, ‘e Ppalle d’o Tenente. Poi, se si vuole proseguire nella consultazione della Smorfia napoletana, si trova il Quarantasette, ‘o Muorto, e il Quarantotto, ‘o Muorto che pparla. A piacere vostro. Il catalogo dei numeri al Lotto e dell’interpretazione dei sogni è ricco di figure suggestive. Ma l’incubo del governo, il sogno cattivo, la commare secca che incombe sui conti, sulla Finanziaria, sul taglio delle tasse, è il Cinquantatré, ‘o Viecchio, il grande ritardatario sulla ruota di Venezia. Perché è stato calcolato che l’uscita di questo numero prima di Capodanno, dopo oltre centosessanta settimane di assenza, ha un costo potenziale per il Tesoro di un miliardo e 350 milioni di euro. Come ha contabilizzato sulla "Stampa" Roberto Giovannini, «la metà dei tagli Irpef su cui in queste ore Silvio Berlusconi vorrebbe il via libera della Cdl e del Tesoro». Occhio ai numeri, allora. L’idea di un governo impiccato alle estrazioni del Lotto è l’immagine irresistibile di un’esperienza politica che finisce nei bussolotti. D’altronde, le ultime ore del governo, con la rincorsa trafelata della copertura del deficit per poter tagliare le tasse, assomiglia davvero a una lotteria. Spinto dai suoi suggeritori, in primis Giuliano Ferrara, dopo avere visto l’abisso dei sondaggi Silvio Berlusconi ha deciso di assestare il colpo. Tagliare, tagliare. Costi quello che costi. Anche la bancarotta del paese. Ma l’ultima edizione del "giù le tasse" è il frutto di una decisione estemporanea, non di un progetto strategico. Si tratta di una virata in seguito al micidiale contraccolpo di popolarità dopo l’"abbiamo scherzato". Fosse stato realizzato all’esordio della legislatura, il ridisegno delle aliquote poteva essere presentato come un elettroshock all’economia. Una spinta robusta ai consumi, l’applicazione sul campo della teoria di Arthur Laffer secondo cui ridurre le tasse equivale a rilanciare l’economia, con il risultato che la crescita avrebbe ripagato a usura il minore introito dello Stato. «Woodoo economics», la definì allora Paul Samuelson: ma con una sua creatività intima, con una sua persuasività profana, un suo fascino controintuitivo. Meno tasse uguale più tasse. Geniale. Ma tagliare le tasse un anno prima delle elezioni politiche non è una scossa all’economia, alla produzione, ai consumi: è semplicemente una trovata elettorale. Berlusconi si è accorto all’improvviso che il rinvio del taglio delle aliquote gli si era ritorto contro, e i sondaggi erano precipitati almeno di otto punti. E quindi si è rimangiato il rimangiabile, ha invocato il liberalismo, ha scritto al "Foglio" una «postilla» al Contratto con gli italiani, argomentando la tesi paranoica che tagliare le tasse costituisce un paradigma politico ed etico irrinunciabile. La formula intellettuale di Berlusconi assomiglia in modo impressionante a quelle spiegazioni da Bar Sport, secondo cui problemi molto complessi si risolverebbero d’incanto con soluzioni semplicissime, in una catena micidiale di deduzioni: ridurre le tasse implicherebbe minore spesa pubblica, quindi maggiore efficienza delle amministrazioni, semplificazione delle procedure, attrazione di capitali stranieri, maggiore benessere, migliore competitività. Bingo. Ma questo giochetto deduttivo non convince molto la sede istituzionale che è ormai da tempo il presidio del rigore contabile, ossia il Quirinale. Anzi, per niente. Carlo Azeglio Ciampi non crede affatto nelle puntate pazze al tavolo verde dell’economia. Ha lavorato senza risparmio, a suo tempo, impegnando anche la sua credibilità personale, per convincere mezza Europa che il risanamento del primo governo di centro-sinistra, a partire dal 1996, era solido, strutturale, credibile. Assistere ai tre anni di finanza creativa del governo Berlusconi-Tremonti gli ha procurato inquietudini continue. E si capisce. Il deficit che cresceva. L’avanzo primario che scendeva. Il debito che tendeva a uscire dalla scia del circuito virtuoso. Per questo, Ciampi ha visto di buon occhio la nomina di Domenico Siniscalco al ministero dell’Economia, dopo la liquidazione di Tremonti. Verso Siniscalco, Ciampi ha la stima e l’affetto che si può nutrire per i giovani promettenti. Oltretutto, l’economista torinese ha una lunga consuetudine con le istituzioni. Si è fatto le ossa come consulente di diversi governi, all’epoca dei Reviglio-boys. Ha collaborato con Giuliano Amato nell’impostare la mega-manovra del 1992, all’epoca della spaventosa bufera finanziaria che investì la lira. «Un provvedimento da mettere i brividi», commentò Siniscalco più tardi. «Poteva essere un trauma insostenibile per il paese. Invece funzionò. Così, quando Ciampi subentra ad Amato, può dare il secondo aggiustamento, quello sui salari, con la concertazione». Anche se in termini mediati, connessi a un sottile gioco di diplomazie, si può dunque parlare di un legame effettivo fra il presidente della Repubblica e Siniscalco. Tant’è vero che fu proprio Ciampi a designarlo nel cda della Telecom, in rappresentanza del Tesoro, cioè l’azionista pubblico. Sembra esserci un patto implicito, che può essere descritto in questo modo: Siniscalco è il guardiano dei conti, l’uomo che presidia gli equilibri finanziari. Nel caso che Berlusconi volesse tentare il colpo, sfondare il patto di stabilità, governare in deficit come gli suggeriscono i suoi consiglieri più sbrigativi, Siniscalco sa che il Quirinale vigila, e che quindi non può e non deve dare il suo avallo allo sfondamento. Se il premier gli dice: «Ma che cosa sarà mai mezzo punto in più sui parametri di Maastricht!», il ministro dell’Economia guarda verso il Quirinale. Intuisce così, respirando l’aria del primo colle romano, che Berlusconi non può silurarlo come ha fatto con Tremonti, dato che non si cambia un ministro "strategico" ogni quadrimestre. Anzi, il patto non detto e non scritto con il Colle prevede un deterrente, la minaccia dell’apertura della crisi nel caso della caduta del ministro dell’Economia. Vale a dire che Berlusconi potrebbe anche tentare di liberarsi di Siniscalco, ma vedrebbe spalancarsi davanti a sé l’idea per lui odiosa di una crisi di governo. Nelle crisi, è noto a tutti, si sa come ci si entra ma non si sa come se ne esce. E il premier non vuole rischiare la trattativa per un governo-bis, non foss’altro che per raggiungere il record di un esecutivo che dura per l’intera legi?slatura. Ma non c’è solo questo aspetto. La linea del 3 per cento in realtà è un confine reale che separa nettamente alcune aree politico-istituzionali. Al di qua del limite del patto di stabilità, nella più trasparente ortodossia europea e affiancati al Quirinale, si collocano gli uomini di punta dell’Udc, Marco Follini e Bruno Tabacci, garantiti dalla presenza istituzionale di Pier Ferdinando Casini. Al di là del patto, in una volatile Europa post-stabilità, si raccolgono i fautori della possibilità dello sforamento, a cui si è affiancato negli ultimi giorni il presidente del Senato, Marcello Pera: «I vincoli europei non devono essere un alibi per non fare le riforme». Visione moderna o visione provinciale? L’economista Alberto Quadrio Curzio aveva già messo in chiaro più volte la situazione sul "Sole 24 Ore": «Germania e Francia possono anche permettersi un deficit oltre il 3 per cento; l’Italia, con il debito pubblico che si ritrova, no». E il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, non perde occasione per ricordare che i tagli fiscali devono basarsi su «consistenti, stabili e strutturali risparmi di spesa». Aggiungiamoci che Luca Cordero di Montezemolo ha chiesto come prioritaria la riduzione dell’Irap, e che anche Romano Prodi, appena tornato a Bologna, nel suo nuovo ufficio in Strada Maggiore, ha sottolineato l’urgenza di provvedimenti a favore delle imprese. Di fronte a queste posizioni, l’idea fissa di Berlusconi sembra più che altro una superstizione. La fede cieca in un gioco d’azzardo. Ambo, terno, quaterna, tombola e cinquina. Cinquantatré permettendo, naturalmente: anche a costo di nascondere il bussolotto.
02/12/2004