Messer Francesco, nel senso di Guccini, sta per compiere (il 14 giugno) settant’ anni, sotto il segno di miglior cantautore italiano vivente, e quindi è giusto che venga celebrato. Come si fa a non organizzare liturgie per uno che è nato con il beat e le canzoni di protesta, a cominciare da Dio è morto, epocale canzone per le generazioni dai Sessanta a oggi, per giungere alla sua cifra attuale, in bilico fra l’ intimismo e gli inni civili. Quindi non deve stupire che oggi esca la sua autobiografia, scritta con il poeta e critico letterario Alberto Bertoni, intitolata Non so che viso avesse. La storia della mia vita (Mondadori, pagg. 228, euro 18). Si potrebbe dire che è un’ autobiografia "per luoghi" nel senso che intercetta Pàvana, Modena, Bologna. E non è un caso che il libro gucciniano cominci proprio da Pàvana, il luogo ancestrale, dove i Guccini avevano e gestivano un mulino ad acqua, in uno «scoglio di poche case», sul povero ma non miserabile crinale dell’ Appennino pistoiese. Luogo mitologico, e anche mitopoietico, cioè creatore di mitologie, perché i tempi lenti della montagna, accompagnati dal rumore del torrente Limentra, detto naturalmente "il fiume", sono particolarmente adattia creare storiee favole, qualcuna anche vicina alla verità storica. Come nel caso delle faide tra la famiglia Guccini e la famiglia Biagi (proprio quella progenitrice di Enzo), che si concluse, ai tempi dei tempi, con omicidi e truci tagli di teste, cose da veri banditi, perché per bolla pontificia era garantita l’ assoluzione a chi portasse la testa del colpevole di un reato analogo a quello dei nuovi assassini. Ma il Guccini contemporaneo nasce più o meno in mezzo alla guerra, e non appena ha l’ età della percezione si accorge di come il mondo intero sia entrato in casa: prima gli americani, e poi i brasiliani, vale a dire i soldati della seconda guerra mondiale (amatissimi gli americani con le loro riviste come Life e le sigarette). Il mulino di Pàvana diventa luogo magico e di eventi enormi, globali, trasferiti nella quotidianità montanara, dove poteva accadere che anni dopo la mamma di Francesco, Ester Prandi (morta un anno fa a 95 anni) potesse rispondere a chi le chiedeva se era contenta di avere un figlio cantautore: «Be’ , cosa vuole mai, noi avremmo preferito che fosse diventato professore di storia». D’ altronde, racconta Francesco, la madre è stata la sua prima insegnante di canto, perché cantava spesso canzoni italiane degli anni Trenta. E su un altro versante la nonna, nipote di un’ altra nonna, istruita a "segnare" certe malattie cutanee, recitando la formula: «Sanguine risanguine, sangue germano e acqua corrìa, il sangue di quest’ occhio lo porti via». È la nonna che gli regala la prima armonica a bocca e la prima chitarra. Quindi: «Già allora potevo scegliere solo se essere mago o cantautore». Poi ci sono i ricordi che accompagnano un artista per sempre, anche perché spesso rimangono accanto tutta la vita: come le chitarre, compagne di decenni: dalla prima, fabbricata da un falegname della montagna per cinquemila lire, alle tre Martin e alle due artigianali del liutaio modenese Masetti, oltre a una Trameleuc e una Eko, gentilmente fabbricate su misura in omaggio al cantautore. E poi la via Emilia, e Modena, il secondo luogo dell’ educazione professionale e sentimentale, dove Guccini fa le sue prime prove di giornalista, il primo passo per diventare scrittore, a cominciare dal primo articoletto, dedicato ai cinquant’ anni di vocazione di una suora, dal nome magnifico, Eustachio Maria Peloso («Certi nomi non si dimenticano»)… Salvo poi trasformarsi in orchestrale da balera, compresa la divisa «a scacchettoni variopinti», e conoscere il giro dei musicanti modenesi che in seguito avrebbero dato una sferzata addirittura "culturale" alla musica italiana, come Victor Sogliani, futuro animatore dell’ Equipe 84, e altri sfaccendati come Alfio Cantarella futuro batterista sempre dell’ Equipe, che cercavano una via musicale nella vita. Il seguito della vicenda umana di Guccini è bolognese, con la piccola epopea delle osterie (l’ Osteria delle Dame in primo luogo), dove si faceva notte cantando, raccontando storie, improvvisando in ottava. E poi con il successo sanzionato dalla Locomotiva, la canzone dagli echi anarchici che lo studioso di musica Roberto Leydi definì confidenzialmente «la più grande canzone popolare del dopoguerra», scritta in una ventina di minuti, come se i versi venissero spontanei, dal ricordo di Pietro Gori degli anarchici di Lugano. Ancora adesso, quando conclude i concerti con la canzone che dice «Non so che viso avesse» e «gli eroi son tutti giovani e belli», il pubblico si lascia andare, piange, si commuove, e anche quelli che ormai da anni votano a destra alzano il pugno appena sentono le strofe sulla «bomba proletaria» e la «fiaccola dell’ anarchia». Qui finisce, per ora, la storia di messer Francesco, rintanato con la sua giovane Raffaella a Pàvana. Aveva già scritto pezzi di autobiografia in Cròniche epafàniche, Vacca d’ un cane e Cittanòva blues. Ora la storia si completa con la bella affabulazione di questo ultimo libro. A cui si aggiunge una seconda parte, di Alberto Bertoni, che ripercorre criticamente tutta la carriera discografica e musicale di Guccini, dai tempi gloriosi di Noi non ci saremo fino alle canzoni di indignazione civile come Piazza Alimonda. Il contributo di Bertoniè un sussidio imperdibile, filologicamente perfetto, capace di chiarire tutti i riflessi gucciniani, dagli anni del beat fino a oggi, allorché la consapevolezza "poetica" del fare canzoni è diventata più che mestiere, si è fatta vocazione. Con Francesco che è sempre lì, nel suo rifugio, a guardare libri e repertori, e a scrivere ogni tanto una canzone.
03/02/2010
R2 CULTURA
L' ultimo libro del cantautore racconta la sua storia e quella
della sua famiglia. Partendo da una faida con gli antenati di Enzo
Biagi