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Funambolico Fini

18/04/2002

Che cosa sarebbe Alleanza nazionale senza Gianfranco Fini? Il congresso di Bologna non ha offerto novità straordinarie quanto alla linea politica; però qualche risposta l’ha data. Il pupillo di Almirante, il giovane-vecchio leader della nuova destra "centrale e non centrista" ha ottenuto l’acclamazione. Non sono in pochi, anche fuori dalla destra, a considerarlo un soggetto "trattabile", rispetto all’intrattabilità patrimonialistica e antipolitica di Berlusconi. Si passa sopra il suo camaleontismo, si tende a ignorare il suo passato, molti guardano con interesse a un carisma che gli ha permesso di liquidare velocemente l’eredità fascista e ne ha fatto il virtuale delfino del centrodestra. Leader moderato, Fini? Bisogna intendersi. Nell’attitudine manovriera, nel pilotaggio politico, nel lessico, con cui trasforma in buonsenso accattivante tutte le posizioni dello schieramento berlusconiano, Fini è, o appare, sicuramente un moderato. Lo è sull’Unione europea come sull’articolo 18, sul rapporto con il sindacato e anche sul ruolo della magistratura (malgrado una virata funambolica rispetto ai tempi di Mani pulite e del giustizialismo "missino"). Forse apparirebbe meno moderato se fosse costretto a specificare seriamente che cos’è An, qual è il suo profilo politico-culturale. A Bologna è riuscito a cucinare una relazione in cui lo si poteva scambiare per un cattolico solidarista, con una miscela di neo-conservatorismo e di socialità indistinguibile dalle interpretazioni moderate della dottrina sociale della Chiesa. In realtà la fortuna politica di An consiste proprio nel suo essere subalterna a Forza Italia. Se l’identità post-missina viene modellata al ribasso, in funzione del mantenimento di potere, tutte le incongruità intellettuali del partito, i suoi rimasugli più imbarazzanti, le sue nostalgie un po’ bizzarre finiscono nel calderone e non appaiono incompatibili con i proclami liberali della Casa delle libertà. Tuttavia bisognerebbe anche cercare di vedere quale nesso c’è fra il moderatismo finiano e la «fedeltà alle nostre radici» espressa dalla base. Quali radici? Se un diessino qualsiasi proclamasse una fedeltà simile si direbbe che lo stalinismo macchia ancora quel partito. Mentre per An i «nostri morti che morivano con il tricolore» negli anni Settanta, con cui Gianni Alemanno ha emozionato i delegati, i brividi della platea per l’incoercibile nostalgia di Mirko Tremaglia, così come i residui culturali fascistoidi analizzati dal politologo Piero Ignazi, costituiscono per gli osservatori un semplice dato di folklore umano, dentro una prospettiva politica, garantita dal capo, completamente diversa. Fini ha annunciato che per An gli esami sono finiti e che non c’è più bisogno di lavacri. Intanto però il simbolo di An è rimasto intatto, con il richiamo al Msi. Forse dentro queste contraddizioni fra la modernità e la storia c’è la spiegazione di un leader di successo e di un partito forte nei sondaggi e debole elettoralmente.

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