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Ginettaccio, il pedale di Dio

18/05/2000

Nell’archivio ciclistico di Daniele Marchesini, professione storico, c’è di tutto: articoli di giornali specializzati, cartoline illustrate, réclame d’epoca. Anche un foglietto del cantastorie bolognese Marino Piazza (ovvero Piazza Marino, il poeta contadino, autore anche di un "Attentato a Togliatti"), che celebrò nelle sue strofe il Ginettaccio «intramontabile campione». Leggende di un’Italia senza tv, da cantare nelle piazze e nelle sagre. Appassionato di ciclismo, classe ’48, l’anno fatale della sconfitta del Fronte popolare, degli spari di Antonio Pallante e della salvifica vittoria di Bartali al Tour, Marchesini insegna Storia dell’Italia contemporanea all’Università di Parma. Nel 1992 fece qualcosa di insolito per un accademico: dato che stava progettando un libro sul Giro d’Italia, chiese a Carmine Castellano (il direttore di corsa del dopo-Torriani) di poter seguire la corsa dal vivo. Quell’avventura ciclistica ha fatto da sfondo alla stesura di "L’Italia del Giro d’Italia", un saggio pubblicato dal Mulino nel 1996, seguito nel 1998 da "Coppi e Bartali", con i due campioni interpretati come due facce dell’identità italiana. C’era Bartali, al Giro del 1992? «Come no. Maglietta e berrettino, guidava una Golf bianca, con una grande scritta "Bartali" sulla fiancata. Era molto consapevole di essere un personaggio: avvertiva intorno a sé l’ammirazione di tutto l’ambiente, che nel ciclismo è molto rispettoso dei valori espressi in una carriera. Tuttavia questa consapevolezza si manifestava non come arroganza, ma come generosità schietta verso gli altri, con la disponibilità a stare in mezzo alla gente». Vuole dire che la leggenda non ha deformato l’uomo? «Ciò che si diceva di lui era tutto vero: era cattolico fervente, terziario carmelitano, devoto della Madonna. Bigotto, invece, no. Teneva a confermare l’idea di essere un buon cristiano, un solido capofamiglia, marito e padre senza grilli per la testa, a differenza evidentemente, come diceva ai tempi della grande rivalità con Fausto Coppi, di quell’altro, "l’altro", "quello là", quello della Dama bianca». E sotto il profilo della politica? «Ha sempre sostenuto che lo stemma dell’Azione cattolica era l’unico distintivo che avesse messo all’occhiello in tutta la sua vita. La sua prima visita al papa risale al 1938, quando fu ricevuto da Pio XI. Anche se Togliatti lo aveva in simpatia, nel febbraio del 1949, quando donò la sua seconda maglia gialla a papa Pacelli, "L’Unità" gli scrisse addosso un corsivo malevolo intitolato "Datti all’ippica": scherzi del post 18 aprile». Un democristiano purosangue, in fin dei conti. «Mai stato iscritto alla Dc. Al massimo, c’è stato un suo impegno a favore della candidatura di Vincenzo Torriani, il patron storico del Giro. Nella campagna elettorale del 1958, la mattina dell’11 maggio la Dc organizzò una manifestazione a Milano, in Piazza Duomo, con Amintore Fanfani. Al pomeriggio il movimento giovanile dc promosse al velodromo Vigorelli una iniziativa a sostegno di Torriani, con la presenza di ciclisti famosi come Aldo Moser, Antonio Maspes, e con un corteo di nobili glorie fra cui campeggiava proprio Bartali. Torriani comunque non fu eletto». Evidentemente il carisma di Bartali non era politico, anche se Montanelli lo definì "il De Gasperi del ciclismo". «La contrapposizione politica fra Bartali e Coppi era artificiosa. I due schieramenti erano davvero trasversali. Nel registro all’ingresso della casa di Bartali a Firenze si trova anche la firma di un tifoso comunista che gli ha lasciato scritto, con orgogliosa passione, "Sei il Togliatti della strada"». Chissà che piacere, per uno che dedicava le vittorie al papa e alla Madonna del Carmelo. «Il suo cattolicesimo è stato quello di alcuni italiani che l’hanno sempre inteso come distanza dal potere. Sotto il fascismo, l’appartenenza cattolica mostrata esplicitamente era anche un contrassegno di opposizione, o perlomeno di non subordinazione al regime». Strano impasto d’uomo, con lo spirito rivolto al cielo e nello stesso tempo così radicato alla terra, duro, corrugato. «Il faccia a faccia politico fra bianchi e rossi è stato un potentissimo fattore simbolico, che ha disegnato su Bartali il profilo del crociato. Quella del ciclista di Dio, ardito della fede, era una fama che poi veniva amplificata dal passaparola. Tanto è vero che quando alla fine degli anni Quaranta abbandonò la Legnano e creò una propria squadra, la Bàrtali, si diffuse la voce che anche la marca della bicicletta utilizzata, Santamaria, fosse un omaggio alla Madonna. È una leggenda che viene ancora confermata perfino dagli annali della "Storia d’Italia" Einaudi. In realtà, Santamaria era più laicamente il cognome di un ingegnere di Novi Ligure». Eppure sotto la pelle del ciclista di Dio c’era un uomo di appetiti genuini. «Anche se può sembrare incredibile per il ciclismo "scientifico" di oggi, Bartali non era un monaco dell’atletismo. In corsa era un fachiro. Ma fuori gli piaceva mangiare e bere bene; e si era sempre concesso qualche sigaretta, anche prima e dopo le gare. Lui si proponeva come un atleta a pane e salame, vantandosi di non essere mai ricorso ai sostegni della chimica. Quindi anche nella sua tolleranza per i piccoli piaceri non da atleta, come il fumo e il vino, veniva esibita l’immagine di un corpo sano, e che proprio perché integro, non intaccato dalla farmacia, poteva concedersi certi modesti vizi. Altri tempi, altro ciclismo. Con Marino Piazza che strillava: "Centoventi corridori / nel gran lungo gir di Francia…"».

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