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Giustizia partigiana

16/10/2003

Su un argine del Piave, in un campo di erba medica, un cippo reca questa scritta: "In questo luogo il 1° e il 15 maggio 1945 vennero trucidati 113 militari italiani della Rsi. A vent’anni di distanza i sopravvissuti li ricordano". Quella pietra grigia può essere presa a simbolo del nuovo libro di Giampaolo Pansa, "Il sangue dei vinti", che Sperling & Kupfer manda in libreria il 14 ottobre (382 pagine, 17 euro). Quel cippo, e quella lapide, testimoniano in modo tragicamente dimesso i morti dimenticati, i morti della guerra civile, i morti del dopo-Liberazione. Sono morti più morti degli altri. Fascisti, «o ritenuti tali». Uomini, donne. Soldati, civili, ausiliarie. Uccisi nel vasto massacro delle giornate dopo il 25 aprile 1945, nei «lunghi mesi feroci» seguiti alla fine della guerra. Il libro di Pansa racconta questa storia con un realismo quasi insostenibile. Dominato da due parole che oggi destano la nostra ripulsa linguistica e morale, "prelevare" e "sopprimere"; parole che nelle notti della guerra civile significavano talvolta una vendetta, e talvolta una strategia. «Ho cercato di offrire un quadro sufficiente a restituire il clima del tempo, così come lo vissero e lo subirono gli sconfitti della guerra civile», scrive Pansa rivolgendosi al lettore. Ma il proposito così enunciato sembra quasi un eufemismo. "Il sangue dei vinti" infatti non è soltanto un libro prevedibilmente drammatico: è un libro terribile. Perché nel racconto di «quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile», si agita una moltitudine di uccisioni anonime e brutali, di torture, di sevizie, di stupri, di inganni, di violenze estreme e talora innominabili. «Fatti che la storiografia antifascista ha quasi sempre ignorato di proposito, per opportunismo partitico o per faziosità ideologica». Eccolo, il cortocircuito politico. Un’altra prova di revisionismo, questa volta praticata da sinistra? Sarebbe una definizione fuorviante. Pansa non è uno storico accademico e dichiara di aver voluto soltanto «contribuire a spalancare una porta rimasta sbarrata per quasi sessant’anni». Già, ma questo contributo è offerto come uno shock angoscioso al lettore contemporaneo. Uno sguardo sull’orrore, e con la coscienza che quell’orrore è nostro, della "nostra" parte, di coloro che hanno riconquistato la libertà, ripristinato la democrazia, e fondato la Repubblica. Il racconto vero e proprio comincia alla Biblioteca nazionale di Firenze, di fronte a quella che sarà la sua interlocutrice, Livia Bianchi, immaginata come figlia di un partigiano comunista vicino alla Volante rossa, il gruppo di quelli che "dopo" volevano fare giustizia a modo loro. E dal confronto con questa donna si dipana la narrazione, a cominciare dagli ultimi giorni di guerra. Mussolini e i gerarchi di Salò immaginano soluzioni sempre più illusorie, come l’estrema resistenza nel ridotto in Valtellina. Con lentezza, come il lembo di un corpo sfinito, i reparti tedeschi si ritirano verso il Nord, lasciando dietro di sé l’ultima scia di terrore: eccidi, fucilazioni di partigiani e di "traditori", rappresaglie sugli ostaggi civili. Non appena svanisce la protezione dell’esercito germanico, per i dirigenti di Salò, per i militi della Guardia nazionale repubblicana, per le brigate nere è la fine. Ma è la fine anche per molti civili, per chi aveva aderito al fascismo in tragica buona fede, per i fascisti della prima e dell’ultima ora. Dopo Dongo e piazzale Loreto comincia una tragedia immane. Milano, capitale di fatto della Repubblica sociale, rifugio dei fascisti in fuga dalle zone conquistate dagli alleati, si rivela un mattatoio: «Sino alla fine di maggio, non ci fu più alcun luogo sicuro per chi veniva considerato un fascista o in rapporto con la Repubblica sociale». Da Milano comincia un viaggio senza requie nel cuore della guerra civile. Con la scoperta immediata e stordente che i partigiani commettevano atrocità analoghe a quelle dei loro nemici (sbigottisce il racconto di come una decina di prigionieri vennero uccisi all’ospedale psichiatrico di Vercelli: «Con le mani legate da giri di filo di ferro, vennero fatti sdraiare sul piazzale del manicomio e schiacciati dalle ruote di due autocarri che passarono e ripassarono sui loro corpi»). Già, il racconto di Pansa è traumatico intellettualmente perché toglie i morti fascisti dagli automatismi della storia convenzionale che ci siamo raccontati per decenni. Le violenze dei liberatori come il frutto dell’indignazione popolare, o come vendetta di popolazioni straziate dalla spietatezza dei tedeschi e delle brigate nere. Sottratta al determinismo, alla necessità iscritta nella storia, ogni singola uccisione diventa qualcosa di intollerabile umanamente, un prezzo troppo alto preteso dagli sconfitti. Torino è «una specie di orrendo piazzale Loreto itinerante», in cui l’impiccagione del federale Giuseppe Solaro trasforma la forca in uno spettacolo di massa. Giorgio Amendola scrive sull’edizione torinese dell’"Unità" il 29 aprile parole spaventose, che sembrano l’incitamento al furore: «Pietà l’è morta… I nostri morti devono essere vendicati, tutti. I criminali devono essere eliminati…». In Liguria la resa dei conti è sanguinosa. A Genova si assiste a «una strage compiuta notte dopo notte». Nel Veneto ecco una tragedia notturna fatta di torture, prelevamenti, eccidi, esemplificata dalla cartiera di Mignagola, nei pressi di Treviso, «un luogo infernale per i fascisti in fuga». Con la popolazione che sussurra, disillusa, «a sostituire le bande nere, sono venute le bande rosse». Queste vicende sono estratte a fatica da una storia rimossa o sedimentata nel rancore. Pansa le ha ricostruite attingendo e selezionando da pubblicazioni semiclandestine, dai martirologi della Rsi, da libri perduti e memorie dimenticate, da pamphlet revanscisti. E anche dalle ricerche di qualche storico antifascista, che non ha avuto pudori ideologici nel documentare gli avvenimenti e nell’esprimere il suo giudizio fuori dagli schemi politicamente ovvi. Sotto il profilo storico, l’acme della violenza, e il suo lato più significativo sul piano politico, è dato dalla situazione in Emilia. Se la Romagna in cui agivano i partigiani di "Bulow" (il dirigente comunista Arrigo Boldrini), è stata un esempio di come la guerra civile tendeva a trasformarsi in guerra di classe, contro agrari, possidenti e preti, contro la classe dirigente non comunista, il clou nefasto fu raggiunto nel Modenese e nel Reggiano. Vale a dire nei luoghi del "triangolo della morte", ma soprattutto dell’ora X, della spallata finale, della rivoluzione come completamento della resistenza, e del terrore come intimidazione verso i dirigenti dei partiti antifascisti moderati. Il punto politicamente più delicato è che le strutture del Partito comunista erano significativamente coinvolte nel "verminaio" popolato da ex partigiani violenti e ramificato attraverso le strutture del partito nel territorio. Così la partita la chiude in prima persona, in modo spettacolare, Palmiro Togliatti, che piomba a Reggio Emilia il 23 settembre 1946, e si chiude in una stanza con il sindaco comunista Campioli, insieme a due altri sindaci rossi, Giuseppe Dozza di Bologna e Alfeo Corassori di Modena. Togliatti fischia la fine con un celebre discorso al Teatro municipale, passato alla storia con il titolo "Ceti medi ed Emilia rossa", e poi

con il siluramento alla muta della federazione reggiana. È il ritorno alla normalità. Ma è una normalità in cui i vincitori sanno di avere smarrito qualcosa di sé: «Chi vince, e soprattutto chi vince sotto le bandiere della libertà e della democrazia, avrebbe il dovere della clemenza, della generosità, non dovrebbe infierire sui vinti». Per 20 mila persone, «travolte dalla resa dei conti», il prezzo è stato il medesimo: «Un colpo alla nuca per il torturatore come per la casalinga che aveva preso soltanto la tessera del fascio». Un prezzo troppo alto e troppo uguale. «Sono i desaparecidos totali di una guerra brutale, tutta italiana». Il libro di Pansa lo leggeranno i vincitori e i vinti, nonché i loro figli, coloro che hanno visto pagare un prezzo e coloro che di quel prezzo sono gli eredi e hanno memoria. Rinnoverà un dolore antico, scuoterà certezze indiscutibili. Non c’è da perdere nulla a scommettere che il dibattito sarà furibondo.

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