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GOVERNO a ostacoli

11/10/2007

Magari non è la svolta. Forse non servirà a restituire il consenso perduto sulla scia dell’antipolitica e di una dilagante delusione. Può darsi benissimo che per il centrosinistra nella versione di Prodi, cioè alleanza politica larghissima dall’Udeur a Rifondazione, autentico comitato di liberazione nazionale dal berlusconismo, il tempo sia già scaduto, e che l’esperienza dell’Unione si aggiri nevroticamente nei dintorni del capolinea. Si metta anche in archivio che i sondaggi manifestano la tendenza deprecabile di inclinare sempre al peggio. E poi? E poi, punto e a capo. Il presidente del Consiglio abbassa il crapone e tiene duro. Tanto da giustificare l’ammirazione di Eugenio Scalfari per la sua testardaggine, per la sua ostinazione reggiana, da vero "testaquadra", nel tentare e spesso conseguire mediazioni in apparenza impraticabili. Ma se Scalfari fosse giudicato non sufficientemente obiettivo e neutrale, ecco la sentenza di Mario Monti, grand commis europeo, possibile intestatario di un governo di transizione e di garanzia nel caso di collasso del governo, sostenitore a tempo debito della necessità di unire la politica italiana al centro, su un’area di misure politiche essenziali: «L’abilità e la tenacia senza pari di Romano Prodi, unite alla capacità di Tommaso Padoa-Schioppa e di Vincenzo Visco, hanno prodotto quella che forse è la migliore manovra oggi possibile». Naturalmente il consulente di Nicolas Sarkozy, l’elegante bocconiano Monti, chiariva sul "Corriere della sera" tutte le obiezioni possibili alla legge finanziaria, senza lesinare i giudizi dettati dalla teoria economica: «Una Finanziaria grave: mostra i limiti che, nella presente configurazione politica italiana, non permettono una politica economica adeguata ai problemi del Paese». La migliore Finanziaria possibile, e nello stesso tempo una Finanziaria grave: sono i due confini fra i quali si colloca un complesso di misure di contenimento, di galleggiamento, di compromesso, prodotto a fatica all’interno di una coalizione isterica. In ogni caso, dentro l’establishment il varo della Finanziaria è stato accolto con qualche soddisfazione. Per il presidente della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, «siamo sulla buona strada». E si capisce: Montezemolo ha portato a casa il taglio del cuneo fiscale, e dopo avere condotto un durissimo attacco antitasse all’assemblea generale della sua associazione, prima dell’estate, può assaporare l’ulteriore taglio dell’Ires e dell’Irap previsto dalla manovra. Nel suo ambiente, si vedono sorrisini e si ascoltano note vellutate: «Dopo tutti gli attacchi da destra, dopo le accuse di essere stato troppo molle con il centrosinistra, ecco un presidente di Confindustria che ha incassato per le imprese risultati che i falchi non avevano mai ottenuto». Di fronte a queste considerazioni a Palazzo Chigi storcono il naso. Nessuno accetta l’etichetta di un doroteismo illuminato. «Qui non si tira a campare». Il ministro per l’attuazione del programma, Giulio Santagata, osserva: «Abbiamo fatto tutto il possibile, e anche qualcosa di più, per mettere insieme una manovra equilibrata. Perché noi non abbiamo una strategia di sopravvivenza: o meglio, siamo consapevoli che le chance di resistenza del governo sono legate soltanto, anzi esclusivamente, ai risultati prodotti dalla continuità dell’azione di governo». Continuità sempre a rischio, naturalmente, dato che i numeri al Senato sono noti. Ma dopo il varo della Finanziaria si intravede qualche insperato barlume. Sarà per via della leggendaria testardaggine. Ma se Berlusconi ha annunciato nei giorni pari e nei giorni dispari la caduta imminente del governo e della coalizione, e la spallata non è mai riuscita, può anche voler dire che il governo assomiglia sempre più al paradosso classico del calabrone, l’insetto che secondo le leggi dell’aerodinamica non sarebbe in grado di volare, ma ignora le regole della fisica e quindi vola. O almeno svolazza. O almeno non cade. A parlare con lo staff del premier si ottengono spiegazioni multiple. Il bicchiere è mezzo pieno. Se economisti come Tito Boeri e Pietro Garibaldi parlano della manovra come di una nuova grande occasione mancata, la risposta è una serie di dati tutti positivi. Le finanze pubbliche sono tornate sotto controllo, il deficit tocca un risultato migliore di quello concordato con l’Unione europea, è stato ricostituito un 2,5 per cento di avanzo primario, il debito ha ripreso a calare rispetto al prodotto lordo, la spesa pubblica è stata fermata (dopo i cinque anni berlusconiani di crescita inesorabile, mezzo punto l’anno). Bisogna ripartire da questi dati, dicono a Palazzo Chigi. Il navigatore Prodi guarda con preoccupazione alle fibrillazioni politiche, alle mosse di Lamberto Dini, al malpancismo di Clemente Mastella. Ma se si guarda allo scenario d’autunno, al di là degli incidenti possibili in sede parlamentare, i punti critici veri, su cui si concentra l’attenzione di Prodi, sono due. Il primo è l’idea di una "ripartenza", cioè la sensazione che dopo il lancio del Partito democratico con le primarie del 14 ottobre sia necessaria una sterzata. Un rimpasto, un Prodi bis, una spettacolare riduzione del numero dei ministri, una risposta razionalizzatrice alla ventata antipolitica. Storie, risponde all’unisono l’ambiente prodiano, guardando con qualche diffidenza alle ipotesi di restituzione delle deleghe da parte dei ministri "democrat", fatte o lasciate circolare da Walter Veltroni. Ridurre il numero dei ministri significherebbe infilarsi in un negoziato imprevedibile nelle modalità e nei contenuti. Troppo pericoloso, anzi, «ricominciare da fermi sarebbe demenziale». Il realismo di Prodi nasce dalla convinzione che il centrosinistra è un cantiere, e se si muove un’impalcatura tutto l’impianto rischia di entrare in fibrillazione. "Quaeta non movere", quindi, ammesso che ci siano zone di quiete nella maggioranza. Prodi si aggira nella struttura labirintica dell’Unione prendendo nota di ogni problema e ogni difficoltà, ma con la sicurezza che per il centrosinistra non ci sono progetti realisticamente possibili oltre il suo governo. Lo ha ripetuto fino allo stremo. Lo ha fatto capire in tutti i modi. Fatemi cadere, e poi spiegatelo all’opinione pubblica. Lavorate per un governo istituzionale, con la scusa di approvare la nuova legge elettorale, e poi andate a raccontare all’elettorato che avete lavorato per il re di Prussia, ossia per il ritorno trionfale di Berlusconi. Meglio restare calmi, puntare sulla durata. Il secondo punto critico riguarda il voto dei lavoratori sul welfare: ma su questo aspetto Prodi e i prodiani sono più tranquilli. Certo, dicono, c’è la manifestazione del 20 ottobre, ma a questo punto la questione è affrontabile. Il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, ha capito che una eventuale delegittimazione del governo sarebbe pericolosa anche per il sindacato. «Si tratta di spiegare alla base operaia», dice sempre Santagata, «che sul welfare abbiamo investito risorse importanti, che migliorano la condizione dei lavoratori: gli scalini sono meglio dello scalone, gli ammortizzatori sociali pongono qualche rimedio alla precarizzazione del lavoro, il bonus ai pensionati poveri è un segnale significativo di attenzione alle aree più deboli. Si può sempre sostenere che si doveva fare di più, ma intanto noi queste misure le abbiamo adottate. Così come bisogna ricordare che la manovra, oltre a frenare l’andamento della spesa corrente, fa crescere la spesa per investimenti. Vale a dire ferrovie, Anas, case». Ecco fatta allora la strategia di Prodi. A chi lo accusa di non avere tagliato le tasse, il presidente del Consiglio ricorda che nel decreto ci sono due miliardi per gli incapienti, e nella Finanziaria due miliardi per la casa (taglio dell’Ici e detrazioni per gli affitti). Se si somma il miliardo di detrazioni fiscali per le imprese, finanziato con modalità simili a quelle adottate in Germania (con l’allargamento della base imponibile), si configura una riduzione sostanziale di cinque miliardi. Resta sempre lo stupore, quasi l’incredulità, per l’insofferenza dei cittadini, rispetto a un complesso di risultati non disprezzabili. «I berluscones sono stati bravissimi, hanno convinto l’Italia che abbiamo provocato una slavina di tasse, e noi non siamo stati minimamente capaci di spiegare il profilo dell’azione di governo». E poi ci si è messa la travolgente ondata antipolitica, il "vaffa" di Beppe Grillo, la documentazione degli sprechi della "casta", i privilegi dei dirigenti di partito, le cadute di stile, di tono, di decenza. Quindi adesso l’imperativo è: portare a casa la legge finanziaria, sperando che i moniti del presidente Napolitano, «non abusare del voto di fiducia», non comportino difficoltà ulteriori. Puntare sul fatto che chi la dura la vince. Sapendo che occorrerà superare un altro Vietnam quando bisognerà andare alle Camere per il rifinanziamento delle missioni militari all’estero. E che nel medio-lungo periodo si staglia sull’orizzonte politico l’incognita del referendum Guzzetta-Segni, con le possibili ritorsioni dei partiti minori. Anche se dicono che «in questo momento il referendum è lontano», a Palazzo Chigi tutti hanno ben chiaro che di fronte alla minaccia referendaria sono già pronti i piccoli killer, disposti a tumulare governo e legislatura pur di evitare la ghigliottina della formula elettorale che uscirebbe dalla consultazione referendaria. Ma la tecnica del Prodi cadente e non caduto è quella del buon cristiano paziente: «Ogni giorno la sua pena». Inutile anticipare i dolori. Anche se a mezza voce i suoi collaboratori lasciano intendere che se vorrà evitare l’arma "fine di mondo" del referendum, «Romano dovrà riprendere in mano il gioco della legge elettorale». Non è la sua specialità, ma quando dice che durerà tutta la legislatura Prodi non fa propaganda: ci crede davvero, o almeno pensa che sia possibile provarci, nonostante tutti i vaticini e tutti gli annunci di sventura. E che solo lui, con la sua «leggendaria cocciutaggine» è in grado di salvare il centrosinistra da se stesso. n

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