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Governo rischiatutto

15/07/2004

Dentro l’anomala crisi di governo che ha portato alla defenestrazione di Giulio Tremonti e all’assunzione dell’inusitato interim dell’Economia da parte di Silvio Berlusconi ci sono alcuni misteri e alcune ipotesi. Il primo mistero riguarda la facilità, se non la corrività, con cui il premier ha lasciato precipitare il suo uomo migliore, «il nostro asso», il fantasista «geniale ma con un pessimo carattere», comunque l’uomo a cui era stato affidato il compito dello sfondamento verso lo sviluppo. D’accordo che da qualche mese Tremonti era diventato il bersaglio della polemica di An e Udc, in quanto era considerato il detentore di un potere troppo vasto, e di una interpretazione troppo soggettiva di quel potere. Tuttavia chi può dimenticare che il tributarista Tremonti era stato il piccolo Cavour del recupero della Lega, il gestore creativo dei conti pubblici in attesa del miracolo economico sempre rinviato, l’ideologo stesso della politica economica della Casa delle libertà? Perché allora Berlusconi, posto di fronte all’aut aut di Gianfranco Fini, ha mollato così cinicamente il suo campione? Primum vivere, la filosofia viene dopo. Ma un Berlusconi così politicista, pronto a trasformarsi nel regista di un doroteismo tardivo è in netta contraddizione con il suo carattere decisionista. Secondo mistero: non riesce semplice spiegarsi per quale motivo il fuoriclasse Tremonti ha accettato quasi senza fiatare l’autodafé che l’ha incenerito. All’ex ministro non manca né l’orgoglio né il concetto di sé. Di fronte al forcing un po’ sconclusionato di Fini e di An avrebbe potuto aggrapparsi al suo ruolo, rivendicare la sua funzione politica essenziale di pivot ideologico della Cdl, minacciare di resistere sino a sfidare un’eventuale mozione di sfiducia individuale. Niente. Tremonti si è lasciato affossare, come se il destino avesse preparato una trappola irresistibile. Eventuali risarcimenti futuri nella Ue sembrano improbabili, dopo il massacro subito in Italia. La prospettiva di un cambio di casacca, cioè l’approdo a una posizione di responsabilità nella Lega, è suggestiva quanto, al momento, imprevedibile. Il mistero si infittisce se si pensa al modo rocambolesco con cui è stata giocata la candidatura di Mario Monti come successore del divo Giulio al ministero dell’Economia. Chi conosce la cura assidua che Monti ha sempre dedicato alla propria figura di personalità "terza", estranea alle collocazioni bipolari, non avrebbe scommesso un euro sulla possibilità che accettasse l’incarico. Si poteva immaginare che avrebbe posto tante e tali condizioni di autonomia e di rigore da rendersi incompatibile con i programmi del governo e con le intenzioni di Berlusconi. Anzi, il suo eventuale inserimento ministeriale avrebbe determinato una condizione insostenibile, con un sostanziale commissariamento della compagine di centrodestra: il Cavaliere si sarebbe messo in casa un presidente del Consiglio alternativo. La candidatura di Monti, in realtà, sarebbe stata una manovra politicamente fortissima, non in termini di tutela e di credibilità del governo Berlusconi, bensì come prefigurazione di un processo di scomposizione e di ricomposizione del sistema politico italiano. Gianfranco Fini non l’ha intuito, e si è accontentato del catastrofico successo tattico ottenuto con il siluramento di Tremonti. Una vittoria di Pirro, dato che "Supermario" non è un uomo di destra, meno che mai legato ai populismi assistenzialisti di Alleanza nazionale. Come succede ai tattici, Fini ha intravisto gli effetti della prima mossa, la possibilità di ottenere, con un attacco violentissimo, un risultato immediato. Gli sono sfuggite invece le mosse successive, e tutto il movimento sulla scacchiera. Perché a quel punto non entrava in gioco un semplice rimpasto, e neanche un eventuale Berlusconi bis, con una nuova investitura parlamentare. L’ombra di Monti sulla crisi significava l’entrata in campo delle ipotesi politiche. Ipotesi politiche di sistema. Non si tratta di esercitare la dietrologia. Se un fantasma, il fantasma del commissario europeo, cominciava ad aggirarsi sulla politica italiana, ciò significava semplicemente che la situazione cominciava a muoversi. E si capisce anche perché. Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, la Cdl dovrà affrontare almeno tre temi cruciali: la devolution, la riforma delle pensioni, il taglio delle tasse. Su tutti questi aspetti il centrodestra è drammaticamente diviso. Tre anni di governo hanno placato la sete di potere dei partiti che compongono l’alleanza berlusconiana, ed è venuta a galla l’incompatibilità politica e culturale fra le "due destre". Le elezioni europee e amministrative hanno sanzionato la divisione che corre fra Lega e Forza Italia, da una parte, e An e Udc, dall’altra. Il lunghissimo ciclo elettorale che si è avviato in giugno rende improbabile un’attività di governo che assicuri al paese le riforme che buona parte dell’élite economica e imprenditoriale si aspettava. Di qui, le diagnosi impietose, sempre più frequenti e diffuse, sul sistema politico e il governo. Se l’alleanza di centrodestra non riesce a governare, pur con una maggioranza parlamentare soverchiante, il giudizio negativo investe tanto l’esperienza di Berlusconi quanto il formato stesso della politica. Ha fallito Berlusconi, e il siluramento di Tremonti ne è una controprova formale; ma la conseguenza del giudizio dice che ha fallito anche la formula bipolare. Inoltre, il Cavaliere non è riuscito a formare un proprio establishment, ad aggregare e a sedimentare una classe dirigente. Conclusione: ci vuole una formula nuova. Occorre prepararsi a una nuova transizione. Sotto questa luce, la candidatura di Monti era perfetta. Perfettamente congrua a un disegno ancora in fieri, tale da superare le rigidità del bipolarismo attuale, segnalate con nettezza dal centrista Bruno Tabacci: «Vado d’accordo con Enrico Letta su una quantità di temi, e poi dovrei scannarmi con lui in Parlamento?». Ma era talmente perfetta che Berlusconi si è accorto immediatamente della minaccia che essa conteneva. Dietro l’uomo della Bocconi e di Bruxelles, il capo del governo ha visto il profilo inquietante di un rassemblement dei poteri forti. Ha intravisto la "nuova classe" che sta cercando un equilibrio sullo sfondo del gruppo Rcs e del "Corriere della Sera". Ha valutato le insidie politiche che potrebbero nascere dallo spirito concertativo della nuova Confindustria. Ha preso nota dell’implicita soddisfazione anti- tremontista della Banca d’Italia. Ha evocato strumentalmente un ruolo del Quirinale in un "governo del presidente" in cui un ministro avrebbe contato più del premier. E quindi ha calato la carta distruttiva dell’interim lungo. Ma il panorama politico è reso complicato da alcuni aspetti supplementari. Il voto europeo del 12-13 giugno, infatti, ha polarizzato la struttura del centrodestra, estremizzando la posizione dei partiti. Nel centrosinistra si è verificata una dinamica simile, in seguito all’affermarsi di quel 12-13 per cento che ha premiato la sinistra radicale. Sulla scia di un voto proporzionale, che ha esaltato i partiti anziché la dinamica aggregativa, si sta verificando lo scenario più incerto, un clima da prima Repubblica, "senza governo e senza opposizione". L’attrazione al centro è fortissima, così come sensibile è il rischio di un cedimento di entrambi gli schieramenti plasmati dalla formula maggioritaria. È bene non dimenticare che nel periodo 1991-93 le riforme elettorali e l’approvazione del maggioritario furono introdotte contro i partiti, come una ghigliottina democratica e incruenta per spezzare le collusioni e gli intrecci politico-affaristici. Adesso è tornata la politica. Conta meno la personalizzazione, il carattere patrimoniale di Forza Italia, la leadership più o meno carismatica. In queste condizioni è possibile tutto: sono possibili le manovre per governi istituzionali; è possibile un tentativo di reintrodurre il sistema proporzionale. Soprattutto si fa strada una visione pessimistica, secondo cui l’Italia si governa dal centro. Un centro che è diviso, che ancora non c’è, che potrebbe esserci domani, che potrebbe garantire e controassicurare il nuovo establishment. Sono ancora ipotesi. Possono assumere il profilo indistinto di un governo istituzionale, di una proposta di legge proporzionalistica, di manovre fra ex democristiani dell’una e dell’altra parte: ma le prove di centro sono già cominciate.

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