gli articoli L'Espresso/

GURU MOGOL

01/08/2002

Quando l’ubiquo ministro delle Comunicazioni comincia a parlare della sua fissazione preferita, la cultura di destra e le sue emarginazioni, si avverte dopo poco un certo affanno: eh già, ogni volta Maurizio Gasparri deve tirare fuori gli stessi nomi: l’autore del film dei film ("Claretta"), cioè Pasquale Squitieri; e poi Giorgio Albertazzi, il solito Luca Barbareschi, il reduce Lando Buzzanca. Ma ultimamente Gasparri ha preso l’abitudine di aggiungere all’elenco la figura decisiva, la risorsa estrema, l’ultima briscola. Prego dimenticare Veneziani e Fisichella: la musa di Gasparri si chiama Mogol. A Pierluigi Battista, in un’intervista per "La Stampa" nell’occasione del convegno culturale "La destra ascolta", Gasparri ha dichiarato che gli intellettuali della destra «gli Albertazzi, gli Squitieri, i Mogol devono capire che è finita l’èra delle discriminazioni». Mogol?, eccepisce Battista. Risposta di Gasparri, filosoficamente perentoria: «Ricordo il mio professore di religione che sosteneva che il testo dei "Giardini di marzo" rivelava un’influenza kantiana. Non so se sia vero. Ma uno come Mogol è il simbolo di una cultura non allineata che oggi deve avere spazio». Per Giulio Rapetti, classe 1936, la definizione di "intellettuale di destra" è doppiamente problematica. Intellettuale, boh. Di destra, chissà. Figlio d’arte, sicuramente sì, dato che suo padre Mariano, direttore della musica leggera alla Ricordi, con lo pseudonimo Calibi scrisse canzoni famose come "Vecchio scarpone" e "Le colline sono in fiore". Fatto sta che la carriera ufficiale del Gran Mogol comincia nel 1960 con "Briciole di baci", musica di Carlo Donida, portata al successo da Wilma De Angelis e soprattutto da Mina. Un anno dopo infila a Sanremo "Al di là", cantata da Luciano Tajoli e Betty Curtis: vittoria finale e strada aperta per la gloria. Solo un paroliere? Ce ne guardi Iddio: «Sono un signore a cui interessa comunicare». La faccenda della destra viene fuori in seguito a certe canzoni scritte per Lucio Battisti. Nei raduni tipo i Campi Hobbit i giovani destrorsi e reietti si struggono per le parole esoteriche di "Il mio canto libero": «In un mondo che non ci vuole più…». E anche: «La veste dei fantasmi del passato cadendo lascia il quadro immacolato…». Dice, non dice, forse allude, quelli ci credono. Però in un libro cult del 1979 ("Lucio Battisti. Canzoni e spartiti", Lato Side) l’irridente Gianfranco Manfredi, passato alla storia come cantautore dell’autonomia, lo chiama ripetutamente "il Geniale", ma nega che sia fascista: «Forse il termine giusto è "avventurista". Ma con sottolineato "turista"». In realtà l’ideologia di Mogol è piuttosto ballerina. Nel 1967 consegna a Gene Pitney e a Gianni Pettenati una canzone reazionaria che dice: «Ci sarà la rivoluzione, nemmeno un cannone però sparerà… È finita la rivoluzione, per sempre è finita e mai più si farà», e per sua sfortuna Luigi Tenco la addita all’esecrazione pubblica nel suo ultimo biglietto. Mentre in una storica intervista all’"Espresso" nel 1999, confessa: «Politicamente sono sempre stato un frigido. Credo negli uomini, non nelle ideologie». Certo, l’universo mentale di Mogol è riconoscibile, e scandito dal diluvio di maiuscole implicite di cui sono disseminate le canzoni. La Natura è un teatro di rocce altissime, cieli immensi, praterie sconfinate, le inevitabili discese ardite. La Donna, verosimilmente selvaggia, «un controsenso affascinante». La Politica una faccenda di «sorrisi e compromessi», in cui al massimo si vedono gli effetti mediocri della «politica del curato contro quella della giunta». La Casa è un Tempio, il Sesso «l’offerta del tuo seno, orgoglio dell’animale sano», il Mito è rinascere panicamente come «cervo a primavera». Siccome ha un’insofferenza per i critici «che stanno sempre col fucile spianato, pronti a demolirti», s’è anche messo a scrivere libri in proprio. Il primo, "Immensamente piccolo" (1990) era una raccolta di «centocinquanta aforismi usciti dal nulla»: «Alle quattro all’uscita dell’asilo fiorisce il selciato». «In amore si tradisce per cercare di vivere più vite». «I Tir in autostrada sono giganti imbronciati». Con Aldo Stella ha pubblicato nel 1999 un saggio di filosofia, "Il corpo dell’anima", con il sottotitolo rivelatore: "Dialoghi di un pomeriggio d’estate alla ricerca del senso della vita". In sostanza per farne un filosofo della destra, e neokantiano per giunta, ci vuole una certa determinazione. Vabbé che lui fa il possibile per apparire maschilista, che tratta le donne come strumenti per trasfigurare la quotidianità nella mitologia («Stalattiti sul soffitto i miei giorni con lei, io la Morte abbracciai»), che la sua psicologia è avvinta alla suggestione delle amicizie virili, che gli piacciono i ruvidi sport di squadra perché «vincere da soli è deprimente». Ma tutto questo non consente ancora di fare di tutta l’erba mogoliana un fascio gasparriano. Anche la sua creazione assoluta, il Centro Europeo di Toscolano (www. cetmusic.it), messo su nel 1992 ad Avagliano Umbro, «nella valle dei ciclamini», con investimenti stratosferici, non offre troppi spunti per trasformarlo in un ispiratore o guru implicito della destra: il Cet vuole essere una università della musica leggera, ma anche un luogo di pratiche di medicina alternativa, quasi con sfumature new age. Piuttosto che di destra, Giulio Rapetti sembrerebbe un uomo deluso dalla cultura ufficiale della sinistra. Magari perché a suo tempo Giovanna Melandri lo ha snobbato: «Come dovrei sentirmi allora io che in questo centro studi, considerato uno tra i più attivi in Europa, non ho mai avuto il piacere di ricevere la visita di un ministro dei Beni culturali?». Forse per provare a cogliere il Mogol più autentico bisogna uscire dalle fisime politiciste e considerarne la biografia: ci si accorgerebbe allora che il paroliere più amato da Gasparri è un figlio della Milano di periferia e di ringhiera degli anni Cinquanta, proprio come il quasi coetaneo Celentano a cui ha scritto addosso due miracolosi successi, gli album "Io non so parlar d’amore" (1999) e l’anno dopo "Esco di rado e parlo ancora meno": «È vero, io e Adriano siamo due vecchi ragazzi di una Milano che non c’è più». È di destra Celentano? Probabilmente sì, di una destra oracolare, fatta di prediche e moralismi planetari. Ma la "Weltanschauung" di Rapetti è la stessa di Adriano? O è più disincantata? Mogol finora non aveva mai mostrato velleità politiche. Al massimo si era concesso licenze poetiche. Si era compiaciuto quando la regione Marche, per celebrare il centenario di Giacomo Leopardi, annunciò un dibattito per scoprire eventuali assonanze «fra la mia creatività e quella del grande poeta». Nel frattempo, anche con Celentano, Mogol non ha rinunciato alla sua linea poetica: «Donna, sei dura come un sasso…»; «Ti prenderò, di notte e di giorno anche se tu dirai di no»; «Femminilità, son d’accordo ma non marciarci». Eccetera. Niente revisionismi. Se tutto questo sia sufficiente per cooptarlo come intellettuale della destra contemporanea bisognerebbe chiederlo a Gasparri, Storace a La Russa, e vedere se non si incacchiano perché il gran Mogol ha firmato il prossimo disco del giovane vecchio comunista di Dio Gianni Morandi. Sarà presa anche questa come una prova di non allineamento? Di trasversalità? Se funziona anche questa, nulla è precluso né ai riciclaggi di An né a Giulio Rapetti, il Trasversale.

Facebook Twitter Google Email Email