Chissà, adesso che con il burattino nasuto ci si mette anche Roberto Benigni, ci sarà da porsi domande di una certa profondità sull’attrazione esercitata da Pinocchio per gli italiani. Tanto per chiarire, restando nei dintorni di Benigni, meglio il vecchio "sventrapapere" o il naso telemetrico del burattino di legno? Il simbolo fallico lasciamolo evidentemente al Bignami del freudismo. Invece, l’attrazione per la bugia, per la menzogna, per la dissimulazione, quella sì, sembra del tutto irresistibile per la platea nazionale. Un po’ singolare, questa attrazione, perché in sé il libro di Collodi è un racconto micidiale, fatto apposta per atterrire grandi e piccini. Altro che pinocchierie sociologizzanti per Gadmaniaci, secondo le inclinazioni del neodirettore del Tg1 Lerner. Quando appare la Bambina o Fatina o Sorellina o Mammina dai capelli turchini, e dice: «In questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti… Sono morta anch’io», un brivido di puro orrore promana dalla pagina. Qualcuno per reazione si chiede se la buona Fatina non sia sotto sotto una scema teenager post-punk: e in quel caso dovrebbe mostrare il piercing sulla lingua, e cantare "Vamos a bailar" di Paola e Chiara. A pagine chiuse, di tutti i personaggi si salva solo Pinocchio, proprio perché è genuinamente irresponsabile, sa resistere a tutto fuorché a tentazioni, tira sempre a fregare Geppetto, svende l’abbecedario, e soprattutto sventola le sue bugie: colossali, sonore, ingenue, subito scoperte e punite. Pinocchioni, pinocchietti, bugiardi, bugiardoni e sbugiardati d’Italia non possono quindi negarsi all’identificazione solidale con il loro fratello archetipico. Attraverso Pinocchio si svela un’antropologia. Quella del paese in cui l’informazione viene considerata una fabbrica di panzane, e quanto al Governo vige lo schema secondo cui fatto l’inganno, trovata la legge, come dice il ministro Cardinale. Quella dei concorsi taroccati. Quella di Alex Del Piero, cocco di mamma Juve e studente del Cepu a Urbino. Quella semidimenticata di Tangentopoli e di Mani pulite, ai tempi in cui i sospettati facevano la fila davanti agli uffici del pool per liberarsi la coscienza con la stessa piangente voluttà esibita dal burattino quando viene scoperto (dalla Fatina turchina o da Ilda la Rossa) in menzogna flagrante. Ma anche l’antropologia di Antonio Di Pietro, eccessivamente attratto dai Balocchi (e comunque finito candidato al Mugello, forse non lontano dalle botteghe dei Mastro Ciliegia e dei Mastro Geppetto). Mentono tutti tenacemente, i professionisti della dissimulazione che affollano l’Italia politica. Mettiamo pure agli atti Giulio Andreotti, che delle avventure collodiane è una specie di sintesi suprema, perché è insieme il burattino e il burattinaio, il Gatto e la Volpe, la Lumaca («le lumache non hanno mai fretta», nel senso del tutto s’aggiusta), e anche un esperto coltivatore del Campo dei miracoli, nel quale a seminare cinque monete ne crescerebbero duemila (preveggente allegoria dell’uso del debito pubblico durante gli anni Ottanta; oppure anticipazione dei capital gain nella new economy). Ma non fa specie, oggi, trovare Paolo Cirino Pomicino, alias Geronimo, nei panni del Grillo-parlante? A nessuno verrà l’uzzolo di dar mano al martello di legno e di stecchirlo sulla parete? Per la verità, era già tutto scritto. In un paese che fa di tutto per assomigliare alla pinocchiesca città "Acchiappa-citrulli", non fa specie che alla fine, dopo la scoperta del più colossale intreccio di corruzione politico-economica che sia emerso nei paesi avanzati, siano finiti alla sbarra proprio gli inquirenti: d’altronde, a Pinocchio era già successo di vedersi derubato delle sue monete d’oro, di denunciare il furto e di ritrovarsi condannato alla prigione da un giudice che la sapeva lunga (e che perciò si staglia nella letteratura nazionale di fianco a quell’altro simbolo nazionale che è l’Azzeccagarbugli). Poi, le equivalenze sarebbero abbastanza automatiche. Quel Mangiafoco chi sarebbe se non Luciano Pavarotti, con quella «barbaccia nera» e il «vocione d’orco gravemente infreddato in testa?». Pavarotti ha anche il vantaggio supplementare che unisce la stazza di Mangiafoco e l’inclinazione all’insincerità di Pinocchio: riscattata dal pentimento e dal versamento degli zecchini d’oro nelle mani di Mastro Ottaviano. Tuttavia la barbaccia ce l’avrebbe anche Andrea Bocelli, invischiato nel fisco pure lui, e quindi il melodramma si complica. Il dilemma su chi sia oggi la Balena è risolto dal fatto che secondo il testo collodiano trattavasi di Pescecane, pesce contro mammifero, senza nessun riferimento alla Dc. Ma a sua volta l’Osteria del Gambero Rosso sarà un tempio dello slow food o una fregatura neo-nouvelle-new-cuisine dove con una qualche supponenza daranno al cliente (come danno in effetti a Pinocchio) «uno spicchio di noce e un cantuccino di pane»? Quindi è meglio limitarsi a identificare i bugiardi senza farsi ingannare dalle parole, ma osservando i tratti fisiognomici, mettendo a fuoco ogni possibile sintomo della crescita nasale. Silvio Berlusconi è il candidato principale allo sbugiardamento, ma a leggere bene, il Cavaliere per quanto pinocchiesco nel profilo, non è Pinocchio: «È il conduttore del carro?», si chiede infatti Collodi accingendosi a descrivere colui che trasferisce i ragazzi nel Paese dei Balocchi: «Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole…». È lui o non è lui? Ma certo che è lui: la larghezza è l’effetto Caraceni, il sorriso prestampato è risolutivo, all’Omino manca solo il suo libro "L’Italia che ho in mente". E di fronte a lui, a questa identificazione perfetta, svaniscono lentamente nell’ombra gli altri Pinocchi della politica nazionale: Francesco Cossiga, sì, ha guizzi pinocchieschi, propensioni allo scherzo da prete, ma in fondo prevale l’inclinazione a diventare il bravo ragazzo-chierichetto tutto dottrina sociale della chiesa. Walter Veltroni, assomiglia al Pinocchio studioso, il burattino che ogni tanto fa il secchione e a scuola ce la mette tutta. Gianfranco Fini è uno che ha tentato il salto acrobatico da Lucignolo direttamente al ragazzo per bene, così come ha fatto D’Alema, da vecchio bolscevico, figlio di un dio minore, direttamente a capo del Gran Teatro dei Burattini. Ci sarà chi vedrà ascendenze gattovolpesche nella coppia La Loggia-Pisanu. Talvolta, di notte, si sente dentro la tv il cri-cri-cri di Giulio Tremonti. Eppure il personaggio più collodiano sarebbe sicuramente Umberto Bossi, perché anche lui è una sintesi di Lucignolo, di Pinocchio, dei ragazzi inciuchiti dai Balocchi, e che potrebbe tentare l’impresa di trasformarsi, con un rito celtico a rovescio, da ottimo ragazzo beat in pessimo burattino di legno. Ma il dibattito, per ora, investe più che altri il ticket del centro-sinistra, cioè la Volpe e il Gatto, Giuliano Amato e Francesco Rutelli, il dottor Sottile e il Mammone giubilare. Decideranno i sondaggi, dice l’asinello Arturo Parisi, pericolosamente prossimo a diventare pelle di tamburo. Come il Tonno collodiano, alla sua coalizione depressa Amato dovrebbe rispondere: «Quando si nasce tonni, c’è più dignità a morire sott’acqua che sott’olio». Ma l’indicatore più preciso, credete a Collodi, sarà la chioma di Barbara Palombelli: se apparirà una sfumatura turchina, cominciate a pensare che l’azzurro d’Italia potrebbe non essere solo quello del partito-azienda di Berlusconi, o dell’azienda-partito di Colaninno, ma quello del partito-famiglia del Duo di Roma.
24/08/2000