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I conflitti di Venditti

22/11/2007

Freno, acceleratore, controllo volante degli sms, curva rapida, gioco di sterzo, di nuovo l’acceleratore, e poi, sulle note del suo ultimo disco, la voce inconfondibile di Antonello, core de ‘sta città: «Indimenticabile… Indimenticabile». Passione per la musica che è tutt’uno con la passione per la politica, e per l’immersione totale nel disegno urbano della capitale. Venditti infatti attraversa Roma come uno che navighi nel mare di casa, mare ineluttabilmente "nostrum", i semafori come boe lungo mappe e rotte mentali apprese per espressa via cromosomica. L’album esce oggi, dopo una preparazione lunghissima nello studio di Colle Romano, con i suoi musicisti, il contributo di alcuni spunti di Maurizio Fabrizio, e l’assistenza di Sandro Colombini, suo produttore storico: «Ma ho chiamato di nuovo anche Gato Barbieri, con il suo sax sempre così emozionante, e perfino Carlo Verdone che suona benissimo la batteria nella sua canzone più allegramente politica, "Comunisti al sole" ("Resta sempre uguale a come sei, un comunista al sole / non cambiare, tanto resterai per sempre un sognatore…")». L’album si intitola "Dalla pelle al cuore", e logicamente è superfluo chiedere perché: «Ma perché la vita è sempre doppia, istinto e ragione, fisicità e spiritualità. Ha sempre due facce, come dico in una delle canzoni nuove, "Tradimento e perdono": perché l’amore è il perdono, e l’amore implica e comprende il tradimento. O almeno bisogna saper tendere verso il perdono, che io intendo come perdono cristiano…». E poi aggiunge, come per sottolineare questa duplice idea: «Puoi rinunciare a una delle due sostanze fondamentali, alla materia e alla mente? Puoi rinunciare all’anima, o al corpo?». Venditti come Cartesio, la res cogitans e la res extensa. Così in quella canzone dice che «tradimento e perdono fanno nascere un uomo», e si rivolge drammaticamente ai grandi campioni perdenti, quelli che hanno illuminato la notte con uno spettacolare scintillio e si sono spenti mentre moriva nel buio l’ultima traccia di luce, come Luigi Tenco, Marco Pantani, e il più amato, il "capitano" Agostino Di Bartolomei, genio romanista perduto dalla disperazione: «Ricordati di me, mio capitano, cancella la pistola dalla mano». Sta di fatto che anche il cantautore ha due facce: Antonello e il suo doppio Venditti, il laico e il cristiano, l’uno affascinato dalla politica come utopia concreta, e l’altro attirato dalla realtà viva della fede. Due fedi complementari, l’una che si riflette nell’altra. Antonello, poi, è un modo di dire: si chiama Antonio, e l’ha anche scritto in una canzone, è un ragazzone nato nel 1949 ovviamente "sotto il segno dei pesci", che si avvicina gloriosamente ai sessant’anni con la chioma che è un ricordo e un simbolo di quella della gioventù: «Il segreto è che noi siamo una generazione sospesa, divisa fra passione e ragione, fra amore e razionalità. Fa parte della nostra anima e del nostro corredo genetico». Eppure non è schizofrenia, e neanche manicheismo, questa separazione, questo dualismo: «Dobbiamo saperlo, che siamo tutti Giuda, tutti traditori». Per questo ha scritto un brano, per questo album, che evoca proprio Giuda: «Colui che per essere il migliore, ed esserlo fino in fondo, assume su di sé la responsabilità tremenda di denunciare il Cristo, per poi pagare con il suicidio, senza sconti». Lo fermano per strada, Antonello, lo salutano dalle auto. Lo sentono come uno di loro, per l’accento, il dialetto, la battuta scafata, e si capisce: è l’artista del popolo, colui che nel giugno del 2001 diede un concerto al Circo Massimo per festeggiare il terzo scudetto della Roma, raccogliendo una folla di un milione e 700 mila persone a scandire le sue canzoni romane e romaniste. Sono immagini del presente e immagini del passato. Venditti è un figlio della piccola borghesia romana. La madre, Wanda, se n’è andata quest’anno, a più di novant’anni: era un’insegnante di latino e greco vecchio stampo, implacabile, esigentissima con gli allievi, e una mamma più che impegnativa. Suo padre, anarchico bakuniniano da giovane, che finì prigioniero in Kenya per sei anni, ferito al collo ("Mio padre ha un buco in gola", tutto può diventare una canzone), divenne poi viceprefetto di Roma, con una delega simile alla protezione civile. In casa, c’è ancora il vecchio pianoforte Anelli su cui ha cominciato a suonare da piccolo, alla sua maniera. «Ero un ragazzino grasso, mi sono messo a scrivere canzoni anche per questo. Ho composto "Sora Rosa" a 14 anni, ma anche "Roma capoccia" è di quel periodo, nel periodo dell’adolescenza». Sono passati 17 o 18 dischi dagli esordi, non è un tipo da statistiche, Venditti. Lontani i tempi del primo incontro con Francesco De Gregori: «L’ho conosciuto al Folkstudio, dove alla fine degli anni Sessanta si andava per ascoltare la musica alternativa, sotto il comando assoluto di Giancarlo Cesaroni, il grande capo, un talento assoluto che come record personale poteva annoverare il fatto di non avere fatto suonare Bob Dylan nel suo locale». Forse nasce già lì il Venditti "politico", l’amico di Walter Veltroni e il cantore di Enrico Berlinguer, l’uomo di una sinistra romantica e piena di vocalità e di passioni: con quel disco memorabile siglato "Theorius Campus", metà di Antonello e metà di De Gregori, «con un nome simbolico e già rivelatore, metà teoria e metà pratica», un nome che richiama il personaggio inventato dai due cantautori gemelli, immaginato da Venditti come «un vecchio con la barba che quando suona l’organo sfonda il cielo». Venditti parcheggia la Smart davanti alla sua casa in Trastevere, magnifica "location" di una celebre pisciatina in "Ladri di biciclette", con un grande giardino interno, e un curioso bassotto tedesco, Alighiero, che si intrufola annusando fra le gambe e le sedie. Si può diventare ricchi, eh, con le canzoni? «Diciamo che ci si può trattare bene. Forse non sarebbe andata così se avessi dato seguito ai miei studi, laurea in diritto minerario e specializzazione in filosofia del diritto». Diritto minerario, una cosa eccentrica. «Ma allora andavo a studiare nella biblioteca dell’Eni, la mia idea dell’Italia era, ed è ancora, quella di Enrico Mattei, un paese che cresce e che trova gli strumenti per il proprio sviluppo. Solo che nel momento in cui mi sono laureato uscì il mio primo disco, e allora addio sogni di petrolio, sono arrivati i sogni di musica». Forse allora, in quegli anni Sessanta e Settanta, c’erano idee, utopie, comunque obiettivi da raggiungere. E invece adesso che cosa succede, Antonello? Forse arriva il disincanto, l’assuefazione, la stanchezza, anche la botta di cinismo: «Ma no, la vita è piena di complicazioni, tutte da interpretare. Piuttosto c’è da chiedersi come facciamo a dare una risposta ai nostri ragazzi, perché i figli ottengono soltanto risposte imprecise». Pensa, e lo dice senza veli, alla vita di suo figlio, Francesco Saverio, trent’anni, regista, attore, doppiatore, romanziere, sposato con Alessandra, figlia di Raffaele La Capria e Ilaria Occhini, che ha realizzato il video dell’ultimo disco, e che si sbatte nelle strettoie di un mestiere spesso complicato. «Per loro, per questi ragazzi, sembra che la risposta sia sempre altrove: in ragioni di potere, o in logiche clientelari, senza rispetto per il merito. Li abbiamo fregati, i ragazzi: li abbiamo sbattuti davanti a un computer, facendogli credere che dentro o dietro quel display ci sia un mondo, e invece è solo un imbuto, che li condanna alla solitudine». Per uscire dalla solitudine, a Venditti basta uscire di casa, incontrare il primo che capita, magari è don Guerino di Tora, il direttore della Caritas romana, uno degli amici con cui Antonello condivide le iniziative benefiche, le fondazioni, l’Africa. Perché Roma contiene tutti i momenti, tutte le dimensioni che piacciono a Venditti: «Roma è forma, è estetica, ma è anche contenuto. E se si vuole, tutta la mia storia va davvero nella direzione del partito democratico. Te lo ricordi il verso di "Roma capoccia", quello sulla maestà del Colosseo e la santità del Cupolone, non sono questi i due momenti fondamentali di un partito nuovo? Laico e cristiano come me, convinto che la solidarietà non è soltanto un meccanismo, deve fondarsi sulla carità, ossia su rapporti veri fra le persone». Mentre noi, in realtà… «Mentre noi siamo diventati egoisti anche nella cultura, nella sapienza, e rischiamo di non sapere più che cos’è la generosità, che cosa è il dono». n

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