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I nostri primi quaranta secoli

25/10/2001

Tutti in fila, 4 mila anni di storia italiana fanno 40 secoli, 160 generazioni, 400 pagine, e un’impresa lievemente temeraria. Provateci voi a inventarvi la competenza necessaria per scrivere dell’Italia dal 2000 avanti Cristo al 2000 dopo, e a sfidare il sopracciglio alzato degli specialisti. Alfio Caruso ci ha provato, e manda in libreria per l’editore Salani la sua ultima opera, dopo il successo del trattato sulla mafia "Da cosa nasce cosa" e il bestseller su Cefalonia "Italiani dovete morire". Il libro si chiama "Breve storia d’Italia" (412 pagine, 28 mila lire), e non è affatto facile parlarne: la prima tentazione infatti sarebbe quella degli slogan riduttivi: un super-sussidiario, un iper-Bignami. Ma non funziona. Perché di fronte a un tentativo così fuori scala, l’unica possibilità di giudizio è quella di mettere mano a quelle 400 pagine, e di vedere come Caruso sia riuscito a fare le sue sintesi sfidando la strettoia fra le secche della scolasticità e il mare aperto del panorama weberiano. Insomma, si comincia da quei primi italiani che «escono dalle loro caverne per assistere esterrefatti al passaggio di alcune tribù provenienti dal Centro Europa» (che si mettono a costruire palafitte), e si finisce con 11 righe dedicate all’avventura di Silvio Berlusconi (l’homo italicus dell’ultima generazione che erige trionfalmente antenne). Dopo di che conviene leggere, con la soddisfazione di ritrovare puntualmente tutto ciò che si è dimenticato fra la scuola elementare e la laurea: Rea Silvia e la spedizione dei Mille, la battaglia di Canne e Silvio Pellico, l’imperatore Ottaviano che domina il mondo e l’imperatorino Vittorio Emanuele III a cui viene regalata l’Etiopia, gli etruschi e i musulmani, i mercenari e gli invasori. Eccetera. La caratteristica del libro è quella di raccontare secoli di storia in presa diretta, come se si trattasse di uno sterminato articolo di giornale. Sintesi, semplificazione, un dettaglio esemplificativo, un episodio, una curiosità, sguardi dall’alto e sbirciate dal basso. Giornalismo applicato alla storia. L’effetto è quello di un Montanelli compresso e centrifugato. E se il vecchio Indro si doleva che gli studiosi accademici lo avessero ignorato come storico, è facile prevedere per Caruso il più totale disinteresse degli specialisti, neanche per fargli le pulci. Già, si tratta di un’operazione ultrapopolare, divulgativa, tutta narrata, in cui i giudizi e le tesi balzano fuori dal racconto, non dal richiamo alla dottrina e alla storiografia. La concessione alla tesi di fondo è tutta riassunta nell’ultima frase: «Purtroppo siamo sempre fermi a Guicciardini. Quando scoccherà l’ora di Machiavelli?». Curioso che un libro così eroico si concluda con un punto interrogativo. Eppure in quella domanda si riassume tutta l’intenzione del libro: spiegare perché l’Italia e gli italiani sono così, popolo senza essere nazione, perché si sono divisi in fazioni e continuano a dividersi, perché i moralisti hanno ceduto il passo agli immoralisti e viceversa, perché, perché, perché (alla fine, viene l’idea che la risposta sia già saltata fuori grazie al racconto, galoppando felicemente fra i secoli).

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