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I sinistrati

31/01/2008

Una specie di processo. Oppure una seduta di autocoscienza politica. Fumo di sigari toscani. Gli sguardi dello staff di Palazzo Chigi, qualcuno sbigottito, qualcuno divertito, tipo euforia degli abissi, allegria di naufraghi. Battute finto ciniche, e una domanda che aleggia sulla crisi: mi sapete dire dove abbiamo sbagliato? Già, dov’è l’errore fondamentale del governo Prodi, dov’è il baco della maggioranza? La domanda principale che si rivolgono tutti è semplice. Nasce da una constatazione brutale, già messa a fuoco da tempo: una serie di dati sostanzialmente positivi è stata percepita dall’opinione pubblica, dai cittadini, dall’elettorato, anche dentro il centrosinistra, come un disastro totale. E allora di chi è la colpa di questa malattia? Risposta: di Berlusconi e dei berluscones. Controllo di ampi settori di stampa, le reti Mediaset. No, troppo facile. Facciamo la lista: abbiamo avuto un po’ di crescita che il Cavaliere se la sognava di notte, i conti sotto controllo, la ricostituzione dell’avanzo primario, il deficit ridotto oltre le attese alla faccia di Almunia, la disoccupazione in discesa, l’inflazione sotto le aspettative, l’andamento del debito pubblico finalmente di nuovo in discesa, l’evasione messa sotto attacco, il tesoretto, i primi effetti della redistribuzione, l’abolizione dello scalone, la "quattordicesima" ai pensionati poveri, l’adozione di strumenti a favore del lavoro discontinuo. I precari, dici? Ok, tutti argomenti forti, che "Romano" ha rivendicato a Capodanno, cercando di passare all’attacco e scommettere sulla «nuova concertazione» con le imprese e il sindacato. Per provare a far crescere la produttività, abbassare le tasse, sostenere i redditi. E allora, secondo voi che cosa è andato storto? C’è anche un’altra risposta: la comunicazione. Il governo agisce ma non sa comunicare. Facce che si rivolgono verso il volto freak di Silvio Sircana, il "portavoce unico" del governo nominato a Caserta all’epoca della verifica nei pressi della reggia (anzi, «l’unico portavoce di cui non si conosce la voce», ironizzano anche i suoi amici e i collaboratori). Ancora no, tutte storie. All’epoca, pure il governo Berlusconi, Dio l’abbia in gloria, elevava ululati lamentandosi che le sue trentasei o trentasette mirabili riforme erano state fraintese, non capite. E prima di lui si erano lamentati Giuliano Amato e Massimo D’Alema. No, ragazzi, quando il popolo non capisce non si può fare come diceva Bertolt Brecht, cioè chiedere le dimissioni del popolo. Ci dev’essere una ragione strutturale. C’è sempre una ragione strutturale, dicono i più realisti. Quelli come Giulio Santagata, per esempio, che si ostinano a guardare i fatti. O quelli che sono stati considerati i pasdaran, almeno per un certo periodo, dell’Unione, come Arturo Parisi. I prodiani puri. È colpa loro, dice qualcuno, perché in seguito alla loro miopia, o alla loro fissazione intellettuale, non si è stati capaci di leggere adeguatamente il risultato delle elezioni del 9 aprile 2006. Non avevamo vinto, boys. "Romano" poteva anche dire che la maggioranza così ridotta era «sexy», ma questa era un’illusione ottica. Sexy sarà Carla Bruni, chiedere a Sarkozy, non Clemente Mastella. E quindi è stato un errore fare la voce grossa, e forzare sulle cariche istituzionali. Probabilmente non si poteva dare retta a Berlusconi sul governo istituzionale, sulle larghe intese, soprattutto dopo un voto che aveva spaccato l’Italia e una campagna elettorale che era diventata uno scontro di civiltà. Ma la politica è la politica, devo dirvelo io? Si poteva essere più duttili. Parisi aveva detto che «vincere significa prendere un voto in più»? A che cosa è servito prendersi la presidenza della Camera, quella del Senato, e infine il Quirinale? Più che altro a rendere tesi i rapporti, a mostrare ingordigia, a sprecare energie anziché a creare spazi operativi. Non dovevamo essere così fondamentalisti, dice qualcuno. Ci voleva diplomazia verso Casini. E soprattutto dovevamo rivolgerci al Paese con messaggi più rigorosi. Noi eravamo quelli della sobrietà, della serietà, del lavoro, e il primo messaggio in bottiglia che abbiamo lanciato nel mare magnum dell’opinione pubblica, anche ai nostri elettori, è stato quello del numero dei posti di governo, ministri e sottosegretari. La carica dei 102, o dei 104, non sappiamo nemmeno quanti sono. Adesso riconosciamo che anche questa inflazione numerica era un effetto della coalizione «larga», dall’Udeur a Rifondazione, da Lamberto Dini a Franco Turigliatto (scusate, qualcuno mi spiega chi li ha scelti, Turigliatto e gli altri dissidenti?). E nel momento della verità, o della disperazione, dovremmo anche dire che in effetti noi non avevamo un programma: avevamo il famoso libro di 281 pagine, che aveva certificato gli accordi tra forze politiche poco compatibili. E allora, diciamolo: abbiamo governato avendo dentro l’Unione un virus mortale. Una specie di impossibilità esistenziale, ontologica, genetica a stare insieme. I rifondaroli, i teodem come la Binetti, i superlaici, gli atei come il matematico impertinente Odifreddi, i nemici della Nato e delle basi militari, i contrari all’Afghanistan, i liberisti, gli statalisti, eccetera eccetera eccetera. Vedi come sono finiti i Dico. Guarda i casini con il papa e la Cei. E le continue crisi sulla politica estera, ogni volta uno psicodramma. Eppure abbiamo chiuso la base della Maddalena con ordine, abbiamo la guida di 13 mila uomini in Libano, siamo venuti via dall’Iraq in modo indolore, l’ha riconosciuto anche Bush: e allora spiegate il mistero dolorosissimo: Zapatero viene via dalla guerra in modo traumatico ed è un eroe, noi usciamo con eleganza, con tutti i crismi, con il rispetto dell’alleanza e siamo dei pirla. No, gente, il problema è stato economico. E anche sociale. E anche di "manico", se permettete. Perché quando Bersani ha lanciato le prime liberalizzazioni avevamo il 97 per cento favorevole: solo che ci siamo giocati tutto perché abbiamo calato le brache con i tassisti a Roma. Anche Veltroni ci ha messo del suo, nel caso specifico. E a un certo punto abbiamo dovuto vedere anche la scenetta di Gianfranco Fini, davanti a un pubblico di imprenditori, che difendeva il Pra, grande lezione di liberismo postfascista. Siamo diventati impopolari troppo presto. L’idea di Tommaso Padoa-Schioppa di tenere insieme i due momenti, risanamento e impulso alla crescita, non è stata capita. Si è capito soltanto che eravamo il governo delle tasse. E lui diceva che pagarle è «bellissimo». I politologi hanno spiegato che non ce la potevamo fare, perché al Nord si aspettavano libertà ed efficienza, e hanno avuto fisco, e Visco; al Sud si aspettavano trasferimenti pubblici, cioè soldi, che non sono arrivati. Tuttavia noi, beh, noi siamo stati dei geni: aumentare l’ultima aliquota, penalizzare il lavoro dipendente qualificato, quello che traina il paese anche secondo De Rita e il Censis, oltretutto un settore dove avevamo il maggiore insediamento elettorale: fantastico. Quando qualcuno ha provato a dirlo a Bersani, lui è scoppiato a ridere: «Solo loro possono capirci!». Bella battuta, ma politicamente un mezzo suicidio. Sì, ma ve lo siete dimenticati che non passava giorno senza che Francesco Rutelli attaccasse la politica fiscale del governo? E i fischi della Confesercenti a Prodi, una platea che non doveva essere per forza ostile? E il governatore Draghi, che non ha perso l’occasione di dire che sì, avevamo risanato, ma l’avevamo fatto «dal lato delle entrate», cioè con le imposte. E la Confindustria ammette a denti stretti che il risanamento c’è, ma è congiunturale: avviene nei saldi di bilancio, non con la messa in efficienza dei comportamenti statali, non con la valorizzazione della spesa. Lascia perdere la Confindustria, guarda: con il suo stile ora felpato, e ora aggressivo come nell’ultima assemblea generale, quando si è messo a urlare «mai più nuove tasse», Luca di Montezemolo ha portato a casa quello che nessuno dei suoi predecessori era mai riuscito a mettersi in tasca. I tre punti di cuneo fiscale, l’Irap, l’Ires. L’aveva detto Santagata: «Questo governo di perfetti incapaci ha operato un intervento fortissimo sulla tassazione alle imprese». Non l’abbiamo detto abbastanza forte o abbastanza chiaro. E quindi siamo stati dei polli. Anche perché nel frattempo i due punti di cuneo destinati ai lavoratori sono finiti nel mucchio dell’Irpef, e non li ha visti praticamente nessuno. E i Comuni e le Regioni ci hanno messo l’ultima briscola aumentando le addizionali. Ci voleva più attenzione. Già con la prima Finanziaria, settembre 2006, il consenso era crollato. Renato Mannheimer aveva rilevato una caduta verticale, che riguardava in particolare la gente in possesso dei titoli di studio più elevati, «i segmenti centrali della vita socioeconomica del paese». Abbiamo visto le contestazioni a Prodi al Motorshow di Bologna, praticamente a casa sua. Era partita una raffica fastidiosa di aumenti di prezzi, tariffe, ticket, bolli. Un pulviscolo fiscale, come l’ha chiamato Giuseppe Berta, micidiali polveri sottili di tasse. Mica male per un governo che era nato esprimendo l’intenzione di restituire il potere d’acquisto perso negli ultimi anni, provando a «rimettere il dentifricio nel tubetto», come ripeteva Prodi. Non siamo stati capaci di fare un po’ di sano populismo con le tariffe: se il signor Moretti alzava le tariffe degli Eurostar bisognava che qualcuno gli dicesse, eh no, caro amico, prima mi fai vedere il miglioramento del servizio. E allora, aveva un bel dire Romano che «il paese è impazzito». Certo, abbiamo visto all’opera le corporazioni, lo spirito di clan, i particolarismi. È arrivata la «mucillagine», come ha detto il Censis. La società «sfilacciata» del presidente dei vescovi, il cardinale Bagnasco. E l’indulto, dove lo metti l’indulto? E le interviste di Prodi a cazzeggio come quella alla "Zeit"? E la perdita di credibilità a causa delle indagini e le intercettazioni su D’Alema e Fassino? Abbiamo avuto anche la sfortuna di intercettare l’ondata dell’antipolitica. Il libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo sulla "casta" ha rovesciato addosso alla classe politica quintali di fango. Qualcuno di importante, uno come Giovanni Sartori, il grande politologo, ha perfino preso sul serio Beppe Grillo e il "Vaffa Day". Ha detto che «ci sa fare» e che era meglio che Prodi sparisse dalla circolazione, essendo il tappo su una situazione politica bloccata. Bene, di nemici ne abbiamo avuti tanti. Ma noi non siamo stati capaci di fare qualche battaglia esemplare. Per esempio, qualcuno sa dove è finita la legge sul conflitto d’interessi? E la legge Gentiloni sul sistema televisivo, che oltretutto non è proprio una rivoluzione? E poi c’è stata la botta dell’immondizia a Napoli. Mica colpa di Prodi. Ma vaglielo a spiegare alla gente che Bassolino non ha responsabilità: quello è andato in tv da Bruno Vespa e ha detto che ha fatto quel che doveva fare, ha firmato le carte, ha mandato avanti gli atti. Ma la monnezza è lì, e Gianni De Gennaro mica può fare miracoli. E a questo punto… A questo punto ci mancava soltanto la spallata, non quella di Berlusconi: l’autospallata, quella di Veltroni. Noi correremo da soli. Capito? Una fatica d’inferno per tenere unita la coalizione, uno sforzo bestiale per mostrare all’Italia che si poteva governare, anche con i comunisti e Rifondazione, con Diliberto e Giordano, mentre Bertinotti diceva che "Romano" è come Vincenzo Cardarelli, «il più grande poeta morente», e quello là, Veltroni, mette sul tavolo l’asso del Pd che vuole andare da solo alle elezioni. Puri si vince. E adesso siamo qui, ai piedi di Cristo. No, lascia perdere Cristo e la santa madre Chiesa, è meglio. Eppure qualcuno un giorno dovrà inchinarsi alla testa quadra di "Romano", alla sua ostinazione reggiana, e magari anche alla sua caratteristica leggendaria. Il famoso "culodiprodi"? E dov’è finito? Questi venti mesi di resistenza disperata si devono tutti a lui. E magari a quelli che ce l’hanno messa tutta, come la Finocchiaro al Senato. Sì, ma lui, Romano, che fa, che farà, Romano? Se volete un consiglio, credetemi, non datelo mai per morto, Romano. n

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