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Il cerino di Fassino

09/06/2005

Quindici giorni di spavento. Due settimane sull’ottovolante. O si chiude con questa tempistica risicata oppure la situazione si complica, e allora può accadere di tutto. Può succedere perfino che un partito dalla buona tenuta psicologica venga preso da una crisi di nervi. Ci si mettono difatti in troppi a complicare la vita ai Ds, non soltanto Rutelli, De Mita e Marini. C’è l’affaire Petruccioli: se la Rai è lo specchio della politica, auguri. Ecco l’intima soddisfazione di Bertinotti per la vittoria del "No" al referendum francese sulla Costituzione europea: «Sono stati sconfitti Amato, Prodi, Fassino e Rutelli». Ci mancava l’intervento del papa "astensionista" a proposito del referendum nostro. Mettiamoci allora anche il risultato del referendum stesso, con i suoi prevedibili strascichi, e gli auguri si fanno ancora più ironici. Ogni giorno ha la sua pena. Candidati e manovre si susseguono. Avanti un altro, Veltroni, Fassino, uno ics due, siamo alle schedine del totocandidato. Ciò che resta del Correntone appoggerebbe Giuliano Amato come candidato premier per bloccare proprio Veltroni, accompagnando persuasivamente Prodi al Quirinale. Che occorra prima vincere le elezioni è un dettaglio. «Il rischio è alto», sospira esausto Pier Luigi Bersani, che non nasconde l’inquietudine; ma dalle parole di molti esponenti della Quercia, non solo di quelli destinati al governo, si ha la sensazione che tutti abbiano una paura fottuta che la situazione collassi, che l’Unione precipiti nella disunione. E che alla fine ci si ritrovi nel mezzo della palude, senza la forza di uscirne: cioè senza una leadership, senza una soluzione, senza niente. Quindi parola d’ordine: Romano è insostituibile. Non ci sono alternative. O meglio, ci sarebbero se fossimo nella normalità. E invece è evidente che la situazione è del tutto anormale. Anche a fare un esercizio "togliattiano" di fredda analisi, esaminate tutte le possibili alternative ci si accorge così con un effetto disarmante che ogni ipotesi diversa da Prodi apre un conflitto nuovo. Sicché per il momento le discussioni sulle alternative vengono bloccate alla stregua di un diversivo irrealistico. Massimo D’Alema ha detto e ripetuto che dopo Prodi c’è Prodi, ma ha aggiunto: se la Margherita non lo vuole più, lo dica. Secondo i boatos, Piero Fassino ha respinto tutti gli ambasciatori che gli promettevano la testa del Professore offrendo la sua sostituzione con un Ds. E anche Veltroni ha fatto il possibile per smorzare i toni, «dobbiamo stringerci intorno a Romano». Tuttavia, nessuno dentro la Quercia rinuncia a sottolineare le condizioni a cui Prodi deve sottostare. Prima condizione: deve stare nel mezzo. Non squilibrare l’alleanza. Anche il richiamo alle primarie sarebbe percepito come un principio di divisione. Se poi fa una lista propria, se i suoi fedeli escono dalla Margherita, il centro-sinistra può esplodere. Già abbiamo visto, si dice al Botteghino, Rutelli colpire la lista unitaria, paradossalmente nel nome di una unità politica superiore; se adesso i prodiani, per una unità ancora più alta e nobile, spaccano il secondo partito della coalizione, «vorrà dire che andiamo a finire direttamente in bocca a Berlusconi», come ammette sconsolato Bersani: perché nessuno riesce a capire quale sia la credibilità di un’alleanza politica che contiene al suo interno la chimica della dissoluzione. E anche altre ipotesi, come la scelta della coalizione dei "willing", la lista unitaria senza la Margherita, sarebbe a questo punto una mossa avventata, destinata a produrre spaccature. «Ai miei occhi, ma anche agli occhi di una parte significativa dell’opinione pubblica», continua Bersani, «Prodi non è soltanto un candidato: è il federatore del centro-sinistra, il portatore e il protagonista di un’idea»; e quindi se si lavora contro questo assunto «si lavora per il re di Prussia». Ma allora perché Rutelli e i vecchi dc hanno affondato la lista unitaria? Questa non l’ha capita nessuno. Un’interpretazione possibile che circola in casa Ds è la seguente: nella Margherita ci sono quelli del "lo spezzo o lo piego". Spiegazione: magari quelli come Marini e De Mita puntavano a indebolire Prodi per piegarlo, cioè per costringerlo a compromessi, a una posizione che non coinvolgesse la Margherita in un processo unitario e spersonalizzante; mentre forse Rutelli ha portato il colpo per spezzarlo, con l’intenzione di liquidare una leadership che si reggeva soltanto sull’assenso, o sull’inerzia, di tutti. Frattanto, la demolizione dell’Ulivo e di Prodi richiama dietrologie irresistibili: «E largamente inutili», si innervosiscono i parlamentari del tradizionale "centro" diessino, che cercano di continuare a ragionare politicamente, all’antica. Il ragionamento si conclude più o meno così: Prodi faccia il piacere di mettersi a fare politica, sul serio, faccia a faccia, piantandola con i diktat. Se ci sono manovre, le affronti a viso aperto. Come sostiene uno dei migliori conoscitori dell’ambiente ds, il politologo Piero Ignazi, «Prodi non deve dare l’impressione che ogni critica o ogni scarto rispetto alle sue posizioni sia un attacco alla sua leadership». Detto in modo ancora più esplicito, nei prossimi giorni il Professore farà bene a non considerare il proprio primato come un’investitura per diritto divino: «Altrimenti prenderà le critiche come un delitto di lesa maestà, e i suoi nemici gliele rivolgeranno con l’intenzione di rivelare che il re è nudo». Finora Prodi e i suoi fedeli si sono difesi ricorrendo a tre argomentazioni generali. In primo luogo facendo riferimento a un consenso ulivista e prodiano che sarebbe ancora diffuso nel paese. In via accessoria, sostenendo che la Margherita non è schierata come un sol uomo sulle posizioni antiunitarie del vertice del partito (secondo questa interpretazione, ci sarebbero due Margherite: una del Nord, riformista e unitaria, e una del Sud, ovvero una specie di grande Udeur, una rete notabilare specializzabile nella pesca dei "transumanti" dalla Casa delle libertà all’Unione). Infine, terzo elemento, Prodi si è detto «sicuro» dell’appoggio dei Ds. «Ma qui bisogna ragionare», dice Elena Montecchi, una delle parlamentari di punta sulle tematiche sociali e femminili (immigrazione, coppie di fatto, divorzio "rapido"): «Perché non è possibile che questa crisi, incomprensibile per l’opinione pubblica e anche per il nostro elettorato, lasci il cerino in mano ai Ds. Oltretutto, Prodi non può pensare di essere il candidato di un solo partito, perché in questo caso fallirebbe il suo progetto». In effetti nella crisi del centro-sinistra i Ds sono sostanzialmente innocenti. Probabilmente «c’è stata una forzatura», riconoscono alcuni, allorché Fassino ha premuto su Rutelli annunciando che la lista unitaria poteva andare avanti anche senza la Margherita. Ma la gravità della crisi induce il partito a riflettere anche sulle questioni di scenario, fuori dal recinto del cortile domestico. «Vogliamo renderci conto che c’è un’élite in crisi nei maggiori paesi dell’Unione, e che qui da noi dovremo combattere per ridare un senso anche alla semplice parola Europa?». Il timore è che da destra muova un attacco populista all’Unione, al Patto di stabilità, all’euro, «ai massoni e ai tecnocrati» di Bruxelles che «hanno fatto l’Europa contro il popolo» (Umberto Bossi), in nome del protezionismo anti-cinese e delle svalutazioni competitive, e che un centro- sinistra disgregato non sappia nemmeno rispondere a questo assalto. Prodi doveva rappresentare proprio la garanzia di una dimensione europea, non meschinamente provinciale e "stracciona". La crisi del socialdemocratico Schröder, il radicalismo giacobino di Zapatero, l’estraneità genetica di Blair rispetto alle identità della sinistra continentale mettono in luce l’assenza di una politica riformista riconoscibile e comune; inoltre il fallimento di Chirac sul referendum francese espone le tensioni drammatiche a cui è soggetto il processo di integrazione. A Prodi spetterebbe il compito duramente impegnativo di costruire qui in Italia questa sinistra europea. Dovrebbe sporcarsi le mani, usare gli strumenti della "petite politique" casalinga, produrre mediazioni in vista di un obiettivo più alto. Ma ne ha ancora voglia? «Deve dirlo lui», è la risposta dei Ds. E deve dirlo presto. Perché due settimane non sono ancora un ultimatum; ma sono un appuntamento per una verifica senza indulgenze.

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