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Il Grande Paroliere

06/11/2003

Questa è la storia di uno che forse avrebbe voluto essere Celentano, che ha fatto l’intrattenitore nelle crociere, che ha improvvisato al pianoforte "La vie en rose" davanti a Mitterrand, e che è diventato capo del governo anche per poter sfogare la sua vena canzonettistica. Oggi infatti si materializza nei negozi di tutta Berluscolandia, pubblicato dalla Universal, "Meglio una canzone", l’album di Mariano Apicella che si avvale della collaborazione del super-paroliere Silvio Berlusconi. Fatte le debite proporzioni, è come se si ritrovasse un reperto con De Gasperi impegnato a cantare "La montanara uhè". Ora, siccome Apicella è un buon comprimario, sconosciuto alle cronache fino a quando non apparve in coppia con il premier nelle serate sarde in villa, l’evento è dato com’è ovvio dai frammenti del discorso amoroso del premier. Sono 14 canzoni, metà in italiano e metà in lingua napoletana, in cui il capo di Forza Italia lascia sgorgare il sentimento. Bontà e purezza sono le doti di Berlusconi, secondo il suo cantore Sandro Bondi; ma in quest’opera il leader apre le porte soprattutto all’amore, anzi all’"ammore". Il Cavaliere implora baci, anela labbra da baciare: «Vasa ‘sta vocca bella ca cchiù bella nun ce sta», «tenevo ‘a voglia pazza ‘e te vasà», e lo ripete anche in italiano, «ho sulla bocca tutti i baci tuoi», «ma come fai a darmi questi baci che mi dai». Baci, baci, baci. E ammore. Ma sotto sotto il pensiero dominante è "’A gelusia", quella che «’a notte me turmenta… E sto perdendo ‘o suonno». «È un pensiero che non vuole andarsene, sto male quando penso che… che tu… forse ora tu…». Non esiti, Cavaliere, direbbe uno Schifani, faccia sentire tutta la sua umanità: qual è l’angoscia, qual è il sospetto, che tu, che tu… «mi puoi mentire». Ecco, l’ha detto. Il leader ha confessato. Idea dominante, quella del tradimento possibile, angoscia lancinante, che erompe in brani come "Ammore senza ammore", i cui versi sono altamente indiziari: «Me tiene ‘a mano mmano, ma nun me pienze maie, e finge ‘e me penzà, ma pienze a chillu llà». E chi sarà mai il rivale? Potrà essere il gelido Fini, il neoguelfo Follini, l’istituzionale Casini? O, Dio non voglia, il barbuto e sinistro Cacciari, povera donna, ma povero anche il Cavaliere, roso dal tarlo, estenuato dal dubbio? Cose normali, quando l’amore è ammore, e il cuore diventa «geluso pure si te tocca ‘o viento». Sì, ma se poi lei, quella femmena bugiarda, immaginabile nella spontaneità vesuviana e nelle forme eruttive di Sophia Loren, vuole lasciarlo, che fare, che dire? Il Cavaliere non ci crede, non vuole farsene una ragione: «Dimmi che non è finita qui, che non vuoi gettare via così questo nostro strano amore». L’orchestra ci mette il clima, grazie agli arrangiamenti di gente del mestiere come Renato Serio, passato alla storia come autore dell’inno di Forza Italia. Apicella ci mette le musiche e ‘na voce e ‘na chitarra. Singolare storia, la sua, trattato dalle cronache come «l’ex posteggiatore napoletano" miracolato dalla vocazione canora del Capo. I repertori della musica leggera lo ignorano, e le note biografiche ufficiali segnalano solo che per lui, chitarrista già a dodici anni, la musica è un affare di famiglia: il nonno era «un tassista poeta», mentre il padre (anche lui di casa nelle tenute del premier) negli anni Settanta ha spopolato nell’ambiente musicale napoletano, grazie a uno stile interpretativo "alla Aznavour". Di Apicella circolavano in realtà precarie musicassette antologiche con i classici partenopei, da "Cerasella" a "Malafemmena". Ma adesso, a 39 anni, giunto finalmente al suo primo cd, gli è toccato il compito supremo di vestire di note il lato sentimentale dell’uomo più potente d’Italia. Potente, ma anche malinconico, quando ha da passà ‘a nuttata senza l’amor suo: «La notte senza te non passa mai, anche se so che stai pensando a me, ti stringo e ti accarezzo come se fossi qui». E ancora, al colmo della mestizia: «Notte ca nun vuò passà, notte ca me faie suffrì», perché ha perduto la sua bella fatalona, e la seratina in villa con Fedele e gli altri è stata un succedaneo modesto, con la musica che è filata via triste triste: «Aggio cantato ‘e ccanzone c’a vocia velata e ‘a chitarra stunata». Restano gli amici, certo: no, non l’amico Putin e l’amico Bush, e forse neanche l’amico Tony Renis. Gli amici veri, che si raccolgono intorno all’infelicità amorosa: «Nuie ca facimmo ‘e nuttate cantanno l’ammore pe’ l’innamurate». E finisce subito nell’autobiografia di gruppo, con questi uomini veri e duri che non esitano a confessare la loro vocazione sentimentale: «Nuie, pure a nuie succere accussì, ca ci annamurammo overo». Overo! «Nuie ca cantammo co’ core che chiagne», perché quelle femmene belle accussì dentro l’anima non tengono ammore. E loro, i maschietti, alle Bermuda o a Villa La Certosa, in quella Camelot virile, loro, Confalonieri, Galliani, Letta, Dell’Utri, si guardano int’all’uocchie e confessano che «nuie simme ‘e prime a suffrì, ma pecché, ma pecché ce credimmo ancora!». Creduloni. Si sa che quasi sempre gli amori finiscono male, con un tradimento, con un’infedeltà, con una fuga. E allora? E allora «cerco ‘na distrazione… ‘nu prestesto… ‘n’occasione pe’ nun te penzà». Fosse facile. «Leggo tutt’o ggiurnale» (sarà "il giornale" di Belpietro?), «guardo ‘a televisione» (e qui non c’è che l’imbarazzo della scelta duopolistica). Ma l’unica consolazione è nella fantasia, «e me vene ‘e immaginà ca ce staie pure tu, proprio vicino a me!». Perché in questo caso «’o cielo se fa blu». Cioè Azzurro. Come i cieli di Forza Italia. Oppure, e il cerchio si chiude, come Celentano, tanti anni fa.

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