L’avvio è epico, nel ricordo di un giorno del 2004 in cui la Rai si rivolse a Celentano perché facesse un altro programma: «Non sapeva, il direttore di Raiuno, Fabrizio Del Noce, che aveva acceso la miccia di una bomba a orologeria. Si era rivolto a un "revenant", al giustiziere che non avrebbe utilizzato la sua libertà per regalare audience agli epuratori». A distanza di poco più di un anno dal 20 ottobre 2005, quando fu programmata la prima delle quattro puntate di "Rockpolitik", esce da Bompiani il libro che monumentalizza quella trasmissione, «un asteroide caduto sulla tv italiana». Si intitola "Rockpolitik. Adriano Celentano" ed è curato da Mariuccia Ciotta, giornalista che fa parte della direzione del "manifesto"; e contiene la storia del programma, alcuni testi editi e inediti di Celentano, ma soprattutto la ricostruzione del clima in cui la trasmissione andò in onda. Vera specialista del celentanismo, Mariuccia Ciotta, dal momento che già nel 2001 aveva pubblicato un libro ("Un marziano in tv"), dedicato a "Francamente me ne infischio", e i suoi giudizi su Adriano non appaiono proprio in chiaroscuro: «Già con "Fantastico 8" aveva fatto esplodere la democrazia in tv e in qualche modo anticipato Mani pulite». In quale modo, boh (Eugenio Scalfari scrisse allora che «Celentano evoca l’istinto e l’indistinto» ed era l’archetipo di una nuova politica: semmai aveva anticipato Silvio Berlusconi, non il pool di Milano). Ora, questo nuovo libro pone altri problemi: nel senso che si poteva pensare che "Rockpolitik" appartenesse al passato, agli archivi, alle teche della Rai, essendo una sostanza di immagini volatili, essenze senza corpo, suoni svaniti. E invece il libro presenta "Rockpolitik" come un capitolo irrinunciabile nella nostra vicenda, una specie di epos politico che ambisce a diventare ethos pubblico. Asserragliati nel bunker di Brugherio, i "resistenti" proiettano nel cielo dell’Italia contemporaneo i loro "son et lumière" contro l’omologazione: «Immagini dark, un po’ Miyazaki, un po’ Batman, un po’ Matrix». Agitano l’arena pubblica con l’estetica dello skyline di New York, con gli assoli di chitarra, con il disegno apocalittico della scena. Forse un prodotto televisivo non ha mai trovato il proprio cantore come è accaduto questa volta a Celentano: «Lo scenario che si apre è vertigine spazio-temporale che non appartiene al presente televisivo… Shock dello sguardo, traiettorie a spirale in piano sequenza alla Brian De Palma». Al punto da suggerire l’idea che tanto la curatrice Ciotta quanto il clan raccolto in quella loro Camelot ci credano veramente, credano cioè che "Rockpolitik" sia stato un evento "epocale", in cui il brain storming degli autori immaginava che Adriano "Che" Lentano invitasse il subcomandante Marcos, o che potesse trovarsi a fronteggiare l’irruzione di Berlusconi dentro la realtà immaginaria del programma scandalo. Naturalmente dietro questo lirismo ci dev’essere per forza la nozione che l’ex Molleggiato sia un genio. Curiosa è anche l’adorazione da sinistra per un reazionario come lui: ma forse dipende dal fatto che Adriano è un outsider, «io sono un uomo libero, né destra né sinistra» (parole e musica di Ivano Fossati), è l’Indiano enigmatico di Paolo Conte, e d’altronde lui ricambia facendo il testimonial per la sottoscrizione del quotidiano comunista: «Il "manifesto" è rock». Ma occorre anche essere convinti che Adriano sia talentuoso, anticipatore e "oltre" in ogni tappa della sua carriera. Se è così, ha inventato il rap con "Prisencolinensinainciusol", è stato ambientalista ante litteram con la via Gluck, e ora sconvolge il costume e la politica con le antinomie "rock/lento", in cui «Rockpolitik è il contrario di Realpolitik». «Il doppiopetto è lento, il blue jeans è rock». Apparente ovvietà, schema creato da Diego Cugia per allineare prevedibili alternative fra Paperino e Topolino. Eppure sfonda. In poche ore diventa lo schema di riferimento per tutti, con i giornali che ci fanno i titoli. E allora basta un altro passo per intuire che nel pensiero dei sequestrati di Adriano, Carlo Freccero, Maurizio Crozza e tutti gli altri, mentre Vincenzo Cerami si dedica a «distillare l’arte per il grande pubblico, disseminare segnaletiche emozionali su vie sconosciute», si dev’essere formato il pensiero per cui "Rockpolitik" è la riscossa dell’umanità, della libertà, dei diritti, della democrazia "vera": e così la voce di Celentano è il risarcimento per il silenzio imposto dall’editto di Sofia a Enzo Biagi, a Michele Santoro, a Daniele Luttazzi, e ai silenziati di lungo periodo come Gianni Minà. Lo slogan, dopo che la destra è insorta rabbiosamente, appare inevitabile: «Politica e rock sociale», sintesi di musica e impegno. Ascolti sensazionali, duetti con share cosmico, 15 milioni e mezzo di italiani che assistono allo show a due con Roberto Benigni. Resta soltanto da verificare l’ultima alternativa: se lo spettacolo è, in tutti i sensi, un programma politico, ci sarebbe un erede, qui in giro?
16/11/2006