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Il mito della diversità

21/06/2007

Se le intercettazioni su Massimo D’Alema, Piero Fassino e Nicola Latorre sono tutte qui, c’è poco da aggiungere ai commenti formulati quando furono rese di pubblico dominio le telefonate tra Fassino e Giovanni Consorte, sintetizzate da quella frase complice («Allora, abbiamo una banca?») che è rimasta appiccicata sulla pelle del segretario ds. Non c’è la «questione morale» di cui aveva parlato in quei giorni Arturo Parisi; c’è semmai un’area grigia fra la politica e l’economia, che risulta poco gradevole almeno per due motivi sostanziali. In particolare, si conferma un coinvolgimento dei vertici diessini con un ambiente, quello dei "furbetti del quartierino" di Stefano Ricucci, che non si sa bene quale apporto offrisse alla trasparenza e alla presentabilità del capitalismo italiano. E non depone a favore della medesima trasparenza che la scalata della Bnl da parte di Unipol fosse in qualche misura bilanciata, se non contrattata, "a destra" dalla scalata di Gianpiero Fiorani con la Popolare di Lodi su Antonveneta. Detto questo, occorre anche rilevare che queste nuove intercettazioni sono state precedute dalla costruzione di un’attesa frenetica, come se dovesse uscire la prova definitiva di peccati gravissimi da parte del vertice ds. Il botto non c’è stato: e quindi si dovrà semplicemente iscrivere anche questo caso nella scia delle cospicue montature che sono state realizzate negli ultimi anni contro il centrosinistra? Sarebbe una tesi troppo benevola. È vero che si è assistito a una serie di casi oltremodo inquietanti: Telekom Serbia, con il credito attribuito al "conte" Igor Marini, la commissione Mitrokhin, con la presenza dell’agente più o meno segreto Mario Scaramella, le irruzioni telematiche nelle posizioni fiscali di Romano Prodi, infine il polverone sul comandante della Guardia di finanza Roberto Speciale. Ed è anche vero che diverse di queste storie si sono intrecciate in quell’aggregato che faceva capo al nucleo spionistico della "Tavaroli band". Tuttavia minimizzare non serve a nulla. L’intera storia della sinistra si basa su un crisma di moralità presentato come una differenza di valore rispetto agli avversari politici del centrodestra. Riscontrare di nuovo il coinvolgimento dei leader diessini in operazioni economiche sottotraccia lede un’immagine. Il realismo dice che politica e affari non sono mai distinti come prevede la teoria; ma oltre al realismo, tra le virtù politiche ci sono la prudenza, la qualità dei comportamenti, l’assunzione esplicita di una lealtà morale verso i cittadini. Tutte doti che gli elettori del centrosinistra hanno sempre visto come un netto discrimine rispetto al centrodestra. E che oggi rischiano di finire nel calderone del "questi o quelli per me pari sono". Alla fine, liquidate anche le ultime intercettazioni, e messo alle spalle un cortocircuito pazzesco delle procedure giudiziarie su cui occorrerà stabilire regole precise e controlli ferrei, agli elettori di centrosinistra resta la sensazione sgradevole che sia finita l’età delle certezze; che tutti i giudizi vadano commisurati a una classe politica che ha assimilato le disinvolture del realismo. Ma se è così, se ciò che conta è solo la tecnica della politica, non sarà facile indicare ancora una volta come una risorsa pubblica la propria alterità.

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