La regola di base dice che la propensione al gossip È democratica, interclassista, equamente distribuita nella società. Una ricerca sociologica nei primi anni Novanta dimostrÒ infatti che lo spazio dedicato al pettegolezzo da un "junk paper" come il "Sun" e da un quotidiano di élite come il "Times" era identico. Sono curiosità che si possono trovare nella piccola bibbia in materia, pubblicata di recente dallo psicologo Sergio Benvenuto, "Dicerie e pettegolezzi" (il Mulino). Ma si può giurare davvero sulla democraticità del chiacchiericcio? In Italia il gossip, etimologia "god-sib", cioè cose da madrine, da comari, in francese commérage, idem come sopra, in spagnolo comadreo, e siamo sempre lì, sta diventando qualcosa in più che una concessione alla confidenza, un veniale peccatuccio sociale, un’infrazione compiaciuta del galateo: diventa uno stile di vita, uno strumento di potere, un canale d’informazione, una tecnica della politica. Rumours e boatos vengono raccolti, intensificati e diffusi da una megamacchina instancabile. Per certi versi il potere e la politica del gossip hanno origini rapidamente decifrabili. Tramontata l’epoca delle ideologie, era fisiologico che l’attenzione si rivolgesse ai singoli individui: la personalizzazione della politica non agisce solo coagulando il carisma weberiano di Silvio Berlusconi, ma anche esponendo tatticamente in pubblico gli amori di "Pier" Casini. Ottenuta la certificazione che il re, il moderno principe, cioè il partito, era nudo, la politica doveva spogliarsi anch’essa: anziché le ritualità congressuali, i giochi di alleanza, i veti e gli scambi, sono entrati in scena i comportamenti individuali: vale a dire la materia prima delle dicerie, delle voci, del gossip. Cadute le convenzioni precedenti, ecco allora un nuovo paradigma sociale. Se prima il codice collettivo privilegiava la riservatezza, adesso il segno di distinzione consiste nel padroneggiare le informazioni riservate. Ma il codice Cuccia, fondato sul mutismo, o il canone Andreotti, basato su un archivio minaccioso quanto impenetrabile, non è più valido. Chi detiene le news più esclusive ha un solo modo per dimostrare il suo potere: rivelarle. È per questo che i contenuti del gossip si logorano a velocità supersonica. Ciò che è nuovo ed eccitante oggi, fra poco sarà risaputo. La differenza di classe fra gli happy few e gli outsider, fra Cesare Romiti e il semplice lettore del "Corriere della sera", è segnalata da un ritardo medio di quarantott’ore nella conoscenza delle chiacchiere principali. La "gossip society" ha i suoi cronisti e i suoi archivisti, i suoi siti reali e virtuali. Se guarda al passato, ha i suoi testi d’obbligo nei libri di Ettore Bernabei e Paolo Cirino Pomicino. Se invece guarda al presente, ha un repertorio inesauribile, fra "ciacola" bassa e gossip strafico, nel ritratto italiano composto da Gian Antonio Stella nelle folte pagine di "Chic". Ma ha anche un’autentica istituzione mediatica, che è "Il foglio" di Giuliano Ferrara. Tutta la filosofia di questo quotidiano infatti è ispirata dall’idea dell’equivalenza dello scoop con il pettegolezzo. La stessa polemica sull’azionismo torinese è stata trattata da un lato come un’operazione politica intesa a sconsacrare l’antifascismo come ultima legittimazione della sinistra, ma dall’altro come la rivelazione del pettegolezzo definitivo sulla biografia di Norberto Bobbio. Si direbbe che del revisionismo di Renzo De Felice "Il foglio" abbia raccolto soprattutto il gusto per i particolari inediti, per i documenti coperti, oltre che quella divertita propensione alla maldicenza che il biografo di Mussolini ha trasmesso a diversi suoi allievi, non escluso un grande regista del gossip come Paolo Mieli. Per questo, se si dovesse identificare qual è la cifra distintiva del "Foglio", bisognerebbe segnalare la permeabilità dei ruoli fra chi scrive e chi legge, tipico schema delle comunità pettegole, dove si sparla e si è sparlati. Ma si potrebbe anche dire che la peculiarità del quotidiano dell’Apostata risiede esplicitamente nella rubrica "Alta società", attribuita a Carlo Rossella ma siglata solo con il simbolino di mazza e cilindro, in modo da concentrare tutta l’autorevolezza gossipara del giornale su quelle fulminee righe che parlano di contesse e marchese che ricevono, di terrazze e salotti esoterici, di convegni della classe imprenditoriale, di barche che si chiamano Ikarus e di locali dove la presunta classe dirigente si ingaglioffisce. Un ammicco. Un piacere elusivo. Un rinvio alla prossima puntata. La diceria, ricorda sempre lo psicologo Benvenuto, era la messaggera di Zeus, essa stessa divina. Oggi la divinità sociale si gioca in un continuum fra il trash e l’informazione riservatissima, in un circuito che comprende i divini mondani come Luca di Montezemolo e Diego Della Valle, così come gli spigolatori di pettegolezzi da Roberto D’Agostino a Cesare Lanza. Per i primi c’è il sofisticato piacere di controllare i "si dice" non appena prendono a circolare; per gli altri il gusto di rivelarli pubblicamente, con una soddisfazione delatoria tutta post-ideologica, nel senso che prescinde da lealtà e solidarietà etico-politiche e che si riconoscono solo vincoli di cordata. Per questo è probabile che www.Dagospia.com, diventi non solo l’organo ufficiale del "net- tegolezzo", con D’Agostino come ideologo, testimonial e scoopista, ma un punto di riferimento per l’informazione tout court. Lo scoop su Sonia Raule direttore dei programmi di Tmc mostra già la tendenza: poiché Dagospia non ha il compito di verificare la fondatezza delle notizie, ma di rendere pubbliche le dicerie (che a priori non sono né vere né false: come dice Sergio Benvenuto «La diceria è una claque cognitiva»), può diventare il luogo di raccolta di tutte le spiate e le soffiate nazionali. Con il risultato probabile che insieme a dieci spettegolate di letto e di clan ci finisca anche l’anticipazione di qualche retroscena economico, un "gioco dell’Opa", oppure un insiding politico spifferato da amici o da nemici, per una modesta vendetta, per mettere un bastone fra le ruote o anche solo per il gusto di intervenire nel circuito mediatico. Spesso c’è una differenza molto sottile fra l’uso politico del pettegolezzo e il ricatto. Talmente sottile da risultare indefinibile. Andreotti cercò di tagliare la strada a Cossiga con il caso Gladio, cioè con un gossip di marca dc. Bettino Craxi giocò il suo "poker" contro Antonio Di Pietro ricorrendo a un dossier di pettegolezzi-carogna. I successi di Mani pulite furono accompagnati dai gossip concessi dagli ambienti giudiziari alla stampa. Ma ancor più che l’utilizzo combinatorio delle notizie e delle voci in chiave di potere, occorre considerare, come ha scritto lo specialista di "urban legends" Jean-Noël Kapferer, che «la diceria non convince né persuade: seduce». Così il gossip, quando è condiviso, scambiato alla pari, goduto in gruppo, plasma i circuiti comunicativi di una speciale "società di corte", non troppo diversa da quella di Versailles, descritta nei suoi riti quotidiani da Norbert Elias. Mentre quando è lasciato cadere graziosamente dal sovrano di turno, stabilisce immediatamente una dipendenza gerarchica, in quanto il possesso e poi la concessione dell’ultima diceria costituiscono uno status symbol. È l’ulteriore prova che oggi potere e conoscenza coincidono: anche se forse nessuno aveva pensato che questa coincidenza avrebbe fatto del gossip la risorsa strategica dell’Italia post-politica.
22/06/2000