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Il problema Bersani

24/09/2009
PORTE GIREVOLI

Circola la sensazione che Pier Luigi Bersani vincerà agevolmente le primarie del Partito democratico. Ma probabilmente Bersani non è la soluzione, è il problema. Perché la conquista della leadership del Pd da parte sua rappresenta la riproposizione del modello socialdemocratico di ispirazione emiliana, che appare in grado di mobilitare larghi settori della sinistra classica, ma che nello stesso tempo configurerebbe il Pd, partito ancora relativamente nuovo, come l’erede diretto del Pci e delle sue filiazioni post Ottantanove. Di questo apparente salto all’indietro, Bersani non ha colpa. Da mesi sta elaborando una "narrazione" culturale che cerca di tenere insieme culture diverse, appellandosi ai centocinquant’anni di storia che accomunano il movimento operaio e socialista, l’associazionismo cattolico, il mutualismo cooperativo rosso e bianco. Tutto questo proprio per cercare di superare i confini storici della sinistra, le spaccature e gli steccati del Novecento, i conflitti ideologici e civili che hanno diviso comunisti e cattolici. Sembrerebbe un compito tutto sommato facile, se non fosse che la frattura tra gli eredi del Pci e i democristiani memori del degasperiano «partito di centro che guarda a sinistra» fa ancora sentire i suoi effetti. Sostengono i cattolici che hanno scelto la mozione Bersani, in particolare Enrico Letta e Rosy Bindi, che il rimescolamento fra le culture è già in corso, e se si completerà, il Pd avrà raggiunto il suo scopo. Tuttavia siamo sempre nel discorso ipotetico. E i contraccolpi sono sempre possibili, come si è visto con le sortite di Francesco Rutelli agli stati generali dell’Udc, dove il candidato antiberlusconiano del 2001, fondatore del Partito democratico, ha prefigurato lo scioglimento del patto da cui nacque il Pd, e una possibile confluenza centrista. Se con il successo di Bersani dovesse verificarsi un contraccolpo nel Pd, con la diaspora di esponenti cattolici, è probabile che dal punto di vista quantitativo ciò non sia un fenomeno politico rilevante. Sarebbero segmenti di nomenklatura a spostarsi nella mappa politica, mentre gli effetti sull’elettorato, almeno nel breve periodo, sarebbero tutti da verificare. Di certo, o almeno probabile, c’è che un rafforzamento dell’area centrista, al momento presidiata dall’Udc, appare nell’ordine delle cose. Verso il centro convergono in questo momento frange cattoliche rese inquiete dalle rivelazioni sulla vita privata e pubblica di Silvio Berlusconi, preoccupate dalla violenza mediatica rivoltasi verso il direttore di "Avvenire", nonché fasce moderate che non gradiscono l’egemonia esercitata dalla Lega sulla coalizione di destra. Al contorno di tutto questo c’è la convinzione di nuclei forti di potere, a cominciare dall’establishment economico-finanziario e dai vertici confindustriali e di categoria, che la destra è una coalizione tenuta insieme dalla figura di Berlusconi. Ma nel dopo? C’è un protagonista in grado di assumersi la leadership del Pdl e di gestire utilmente il rapporto di coalizione con la Lega? E di trattare con chiarezza di obiettivi l’arco delle riforme necessarie? Oppure quando verrà il momento della successione occorrerà un ridisegno complessivo del sistema politico, fino a configurare il "modello Kadima", partito della nazione, luogo di una politica consensuale? Va da sé che il ridisegno centrista, connesso esplicitamente alle élite economiche (vedi l’attivismo trasversale di Luca Cordero di Montezemolo) e nello stesso tempo legato alle sensibilità moderate del cattolicesimo diffuso, appare irresistibile per molti ambienti che si sono stancati del "primato della politica". Un Grande Centro, magari anche piccolo, un Centrino, che fosse in grado numericamente di condizionare la formazione delle alleanze elettorali e delle maggioranze parlamentari, sembra uno strumento irresistibilmente attraente per relativizzare la politica. Non è un caso che Dario Franceschini si aggrappi alla difesa del bipolarismo. Il progetto del Centro implica la sconfessione del modello politico su cui il centrosinistra ha scommesso negli ultimi quindici anni, e un rimescolamento delle carte da cui potrebbe uscire una democrazia negoziale, basata sulla trattativa continua tra partiti alleati, e su un fitto tessuto di mediazioni con i settori economici. A occhio, Bersani dovrebbe fare tutto il possibile per disinnescare questo progetto. Ma per farlo sarebbe opportuno che non sbandierasse troppo spesso la parola "sinistra", anche se fa parte della sua identità. La sinistra è meglio farla con i programmi, anziché con gli slogan.

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