Il Cavaliere ha smentito la figuraccia con la solita scioltezza, ma qualche frase considerata infelice dai suoi commensali europei dev’essergli scappata. Perché quella ossessione plateale sui comunisti, da cui l’Italia è stata liberata grazie alla Casa delle libertà, non rientra nel novero delle gaffe: è l’espressione più genuina di un’ideologia, di un sentire intimo, di una vocazione. Peccato che al livello delle relazioni continentali l’empito anticomunista del premier sia considerato per quello che è: vale a dire una fissazione provinciale. Ciò di cui Berlusconi va fiero fra il suo elettorato domestico, la sconfitta degli orribili rossi, in Europa appare come la fastidiosa mania di un teatrante che ripete il suo repertorio, indifferente ai sottili equilibri su cui si regge il consenso europeo. Le storielline sul premier che fa il suo numero antibolscevico (che sia stato zittito o no dai partner) apparterrebbero in realtà a un genere letterario minore se non fossero la spia di una mentalità effettivamente provinciale che alligna nella Casa delle libertà. Erano ugualmente provinciali le uscite anti-allargamento di Giulio Tremonti, le trovate estemporanee contro il protocollo di Kyoto, il volontaristico fervore americano e bushista. Mentre gli organi mediatici d’appoggio dipingono un quadro roseo dell’esordio internazionale del Cavaliere, ci si può chiedere nel frattempo quale senso abbiano le lamentele da chiagni e fotti sullo sforamento del bilancio, il declino di responsabilità su Genova sede del G8, e poi anche le uscite antieuropee e anti-italiane del ministro berlusconiano Umberto Bossi. Di fronte alle sortite più eccentriche, i laudatores sostengono che la politica del centrodestra non va confusa con le rudezze scalpitanti degli esordienti: ottima linea di analisi, eccellente interpretazione, ma si tratterebbe allora di capire, fuori dal folklore, dov’è e qual è la sostanza.
28/06/2001