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Il re è nudo l’Italia pure

29/06/2006

Ma è mai possibile, o porco di un cane, che le avventure, in codesto reame, debban risolversi tutte con grandi puttane…: d’accordo che grazie al cielo il reame è stato abbattuto con un referendum preveggente sessant’anni fa; tuttavia le parole di Paolo Villaggio usate da Fabrizio De Andrè nella canzone che racconta ironicamente del re Carlo Martello reduce dalla battaglia di Poitiers sembrano l’epitaffio più appropriato per incorniciare poeticamente l’ultimo scandalo, scoperchiato dal pubblico ministero John Woodcock. Sesso, bugie, videopoker, tangenti, affaracci di casa reale; ma anche una vicenda macroscopica di manipolazione della politica, il Watergate laziale che il folklore dei ricatti sessuali a sfondo televisivo sta tenendo paradossalmente quasi coperto. Nonché più generalmente un ritratto della società italiana che dal caso Ricucci, passando per il caso Moggi per giungere al caso Savoia sta rivelando davvero una nazione eternamente infetta (anche se va rilevato che il lessico di Stefano Ricucci era molto più spiritoso di quello del mancato re d’Italia). A distanza di 14 anni dall’esplosione di Tangentopoli, il quadro è sconfortante. Perché il quadro di Puttanopoli è privo di centro. Si estende in forma ameboide. Le intercettazioni rivelano un virus profondo, apparentemente inestirpabile, diffusissimo, che ha minato interi gruppi sociali: ragion per cui l’appello a fare pulizia sembra un grido di dolore senza speranza. Espressioni come etica pubblica sembrano penosamente remote davanti al panorama di quell’Italia che le intercettazioni mettono sulle prime pagine dei giornali. Nello stesso tempo si susseguono gli inviti a non cadere nel moralismo. D’accordo, proviamo allora a infilarci nella sociologia politica. L’ipotesi più apocalittica è che nei cinque anni di governo della Casa delle libertà un intero ceto di sradicati abbia messo le mani in qualsiasi spazio di potere: sono cadute le inibizioni, i tabù civili, il galateo pubblico e privato, le regolette della buona educazione. Lo avevano scritto i pedagoghi del diritto come Franco Cordero, ed erano stati sbertucciati dagli antimoralisti: Cordero aveva scritto che i «sicofanti» del Cavaliere avrebbero restituito un’Italia depredata, priva di ogni vitalità, sfibrata nel morale e nella morale. Adesso, dopo il Laziogate con cui una banda di spioni ha cercato di far vincere le elezioni regionali a Francesco Storace, riesce piuttosto difficile ricorrere agli schemi a cui solitamente si ricorre, per sfoggiare garantismo: secondo cui la responsabilità penale è personale, ogni cittadino è innocente fino all’ultimo grado di giudizio, le intercettazioni sono talvolta «una barbarie», come insistono in modo un po’ stridulo i garantisti del centrodestra. All’epoca di Mani pulite, Antonio Di Pietro ricorse alla formula della «dazione ambientale», per descrivere un sistema in cui politica e affari si intrecciavano in una fisiologia corrotta, talvolta senza poter individuare con precisione assoluta la colpevolezza degli individui. Adesso si sta disegnando un’area brutta e grigia, in cui la criminalità economica convive con il malcostume personale e sociale: reati economici da provare, ma piuttosto evidenti nel romanzo a puntate delle intercettazioni, sono affiancati da comportamenti di bassa e feroce trucidità, a cui forse non si riuscirà ad attribuire un rilievo penale, ma che dipingono con una certa chiarezza tutto un ambiente. Che ci sia un rapporto esplicito fra cinque anni di pessime leggi sulla giustizia e la spettacolare catastrofe comportamentale rilevata dalle intercettazioni dipende da un giudizio politico: ma è indubitabile che il "riequilibrio" tra il primato della politica e il potere dei giudici praticato attraverso le riforme della Cdl e la durissima battaglia contro l’ordine giudiziario coincide temporalmente con il trionfo dei metodi basati sulla sensazione esaltante dell’impunità. La risposta della Casa delle libertà, da parte sia di Silvio Berlusconi sia del partito per ora più coinvolto dalle intercettazioni nelle storiacce politiche, affaristiche e sessuali dell’ambiente romano, ovvero Alleanza nazionale, appaiono quelle classiche. Le intercettazioni sono uno strumento gestito in modo infame, c’è un complotto, vogliono colpirci, davamo fastidio, basta con la gogna mediatica, siamo sereni, non c’è nulla di penalmente rilevante. Sono tutte storie. Anche se l’inchiesta della procura di Potenza dovesse naufragare sulle secche dell’indimostrabilità giudiziaria di certi comportamenti pecioni, lo spettacolo rivelato dalle telefonate dei protagonisti rivela un aspetto di vistosa semplicità: sono bastati pochi anni di intrinsecità con il potere per assistere a un crollo distruttivo nello stile e nella soglia della decenza pubblica e privata. Anzi, l’intreccio tra la politica e l’ambiente circostante è strettissimo. Investe le relazioni fra il portavoce di Gianfranco Fini, Salvatore Sottile, e il démi-monde della Rai. Tocca i procacciatori di starlet ma anche la collusione fra programmi di informazione e uffici stampa dei politici. Coinvolge anche le paradossali ipotesi politiche del rampollo Emanuele Filiberto, con il suo progetto di partito intitolato Valori e futuro, con le pizze al tartufo nel ristorante Il Quirinale di Ginevra, il governo ombra ventilato da Vittorio Emanuele di Savoia, le "porcelle" a cui si richiede sesso in cambio di comparsate in programmi minori della tv di Stato, le imprese di famiglia che sfruttano al meglio le relazioni improprie con la politica. Il catalogo è talmente vario da lasciare la sensazione disarmante che questa sia soltanto una piccola porzione della palude. Sicché ci si chiede, sfidando ovviamente il fuoco preventivo contro il "qualunquismo", se la corruzione non sia ormai talmente diffusa da risultare incontrastabile. Non solo: in condizioni di normalità della vita pubblica, l’uso pubblico delle intercettazioni dovrebbe essere giudicato vivamente problematico. Per una quantità di ottime ragioni: per le possibili distorsioni che esse introducono nelle vicende penali, per le chiamate di correo improprie, destinate a figure laterali che vengono esposte altrettanto impropriamente al giudizio, e talvolta al ludibrio, generale, per le violazioni della riservatezza personale, per l’inquietudine che genera una società controllata dalle registrazioni. Ma di questi tempi risulta impossibile non chiedersi che cosa succederebbe se le intercettazioni non ci fossero. E istintivamente si risponde che verrebbe a mancare anche l’ultimo, anomalo, strumento di contrasto della corruttela. Sfortunato il paese che ha bisogno di intercettazioni telefoniche per sfuggire a un destino di affari sporchi, di viltà civili, di ricatti, di tangenti. E si capisce quindi la provocazione di Marco Pannella, principe dei garantisti ma atterrito evidentemente dalla diffusione dell’infezione civile: pubblicare tutto, subito, sempre. Perché la situazione è eccezionale, e nessuno sa che cosa accadrebbe nel tessuto del paese, se non ci fosse almeno il contrasto delle intercettazioni. Ma è chiaro che la struttura di una società non può essere tutelata soltanto dal Grande Fratello. Si tratta di vedere se ci sono meccanismi da introdurre razionalmente per ridimensionare l’abuso delle posizioni di potere. Fine della tolleranza sull’evasione fiscale, rispetto del merito indipendentemente dalle basi di partenza sociale, durezza legislativa sulla criminalità finanziaria (i casi Parmalat, Cirio e bond Argentina hanno avuto un ruolo fondamentale nel diffondere sfiducia e togliere credibilità all’economia), scelte chiare a favore della concorrenza e contro la rendita corporativa sono gli strumenti per aggredire le posizioni di privilegio. Ma probabilmente occorre andare fino in fondo con l’eliminazione del primato e del condizionamento politico nei servizi pubblici e in particolare nel servizio pubblico, nel senso della Rai. Su questo tema è facile riscuotere grandi insuccessi d’opinione, ma il problema in fondo è semplice: la Rai da tempo è lo specchio della politica, delle sue spartizioni, dei suoi metodi clientelari, e ora anche della spregiudicatezza comportamentale delle mezze tacche che controllano il quartier generale. Tutte le soluzioni intermedie, a questo punto, risultano palliative. Tanto vale passare con metodo alle vie di fatto radicali, cioè alla privatizzazione integrale. Per fare in modo che gli eventuali servizietti ai potenti e ai semi-potenti siano tutti riconducibili al privato: e che non ci siano più di mezzo, come una tentazione evidentemente irresistibile, le opportunità e le complicità del servizio, o del servizietto, pubblico. n

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