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Il terzo Giulio

01/03/2001

Giulio Andreotti tenta la scommessa del diavolo. Sconvolgere il bipolarismo, dissolvere le alleanze. Prima di dire che è un’operazione antistorica, conviene ripassare la sua storia. Perché in passato abbiamo conosciuto due Andreotti: Giulio I, l’essenza del potere democristiano, la personificazione del gioco combinatorio, la politica come perpetuazione di una mediocrità salvifica, autenticamente "popolare" in quanto rifiutava l’alta strategia per insinuarsi nelle pieghe di una quotidianità fatta di diplomazie, pragmatismi, nomine, rapporti personali. Capace di secche sterzate a destra, come nel 1972-73, allorché diede vita all’alleanza con Malagodi, correggendola in corso d’opera con concessioni sindacali; ma anche in grado di amministrare la solidarietà nazionale, pochi anni dopo, interpretando il disegno di Moro in modo tale da sfibrare il Pci. Oppure deciso a bloccare ogni ipotesi di alternativa tra la fine degli anni Ottanta e l’avvio dei Novanta, stabilizzando l’accordo con Bettino Craxi: cioè scegliendo il presente come unico scenario possibile (salvo giocarsi il futuro). La seconda incarnazione di Andreotti è la conseguenza di un fallimento politico che coinvolge lui e un intero assetto politico. Bocciato per l’ultima volta nella scalata al Quirinale, travolto dallo sfacelo della Dc, identificato come il simbolo della bancarotta della prima Repubblica, e alla fine trasformato nell’immagine della collusione mafiosa. Due vite da democristiano sarebbero state sufficienti per chiunque, soprattutto dopo le assoluzioni di Perugia e di Palermo. Alla fine, la sua presenza nel gruppo dei Popolari al Senato veniva colta come un muto assenso alle scelte del partito, un riconoscimento informale che il Ppi rappresentava qualcosa del "partito di centro che guarda a sinistra". Perché, allora, la nuova avventura? Quando c’è di mezzo Andreotti, la dietrologia rende cattivi servizi. Giulio III tenta di fare esattamente ciò che annuncia. Scardinare Polo e Ulivo e rifare la Dc, liquidare Berlusconi come una parentesi, e giungere all’"heri dicebamus". Ma per compiere il primo passo ha bisogno di qualcosa in più dei voti ciellini e di qualche clientela cislina. Gli servirebbe un appoggio della Chiesa: almeno un segnale che faccia capire ai parroci che sì, quel partitino centrista riflette almeno alla lontana la luce dello Scudo crociato. Per ora, tuttavia, i segnali latitano. Anzi, la gerarchia depreca "la confusione" nel Centro. Dati i tempi, il realismo è una prerogativa di Sodano e Ruini. La Chiesa ha molto da guadagnare dalle due alleanze attuali: le soppesa, le mette una di fronte all’altra, le sottopone a esame, espone le proprie richieste. Per quale motivo dovrebbe puntare apertamente sul terzo incomodo e sponsorizzare l’attacco contro due interlocutori così disponibili, e così facilmente condizionabili? Solo perché il realismo del senatore a vita in questa occasione si è mutato in un inatteso idealismo neodemocristiano? Molto più semplice, per il Vaticano, concedere ad Andreotti solo una benedizione. Tanto, Giulio III non ha obiettivi parziali: ha un traguardo epico. Se ce la fa, e sbanca il 4 per cento, la sua romanzesca abilità manovriera avrà modo di sbizzarrirsi. Per una volta nella vita, Andreotti non tira a campare: si gioca una storia, personale e politica. L’aiuto di Dio e di Santa Madre Chiesa sarebbero essenziali. Ma difficilmente ai cardinali piacciono le scommesse se non procurano un utile immediato; tanto più che Dio, lo sanno tutti, non gioca a dadi.

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