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Io speriamo che sopravvivo

14/06/2001

La crisi a sinistra sarebbe comprensibile se i Ds fossero ancora un partitone gonfio di voti e con la necessità tecnica di risolvere il problema della sconfitta elettorale. Allora sì che si tratterebbe di "elaborare il lutto", secondo l’espressione che va di moda al Botteghino. Reggenze, garanti, mediatori, e poi analisi, riflessioni, lenti progetti e bei congressi, apparterrebbero alla strumentazione tecnica del rilancio. Purtroppo le cose non stanno così. I Ds sono una forza politica al 16 virgola, percentuale troppo bassa per imporre primazie politico-culturali e troppo alta per accettare alleanze contrattate, con la leadership in appalto. In queste condizioni, concentrarsi sulla favola della rinascita socialista, come fa D’Alema, non è l’indizio di un sovrano realismo, bensì della coazione a ripetere. Il dilemma vero riguarda oggi la costruzione di uno schieramento competitivo nel contesto di un confronto bipolare. Dopo di che, si tratta di capire se la dirigenza Ds è in grado di assimilare questo obiettivo e di elaborarne le pratiche. Oppure se la Quercia è un esercito in cui lo stato maggiore discute nevroticamente tattiche e strategie, mentre il campo di battaglia si sta spostando altrove. In sostanza, occorre infrangere il tabù della sopravvivenza, cioè riconoscere davvero che anche i partiti possono morire. E che si può tentare di sopravvivere in molti modi: arroccandosi a Bisanzio, secondo un riflesso condizionato; o cercando una formula politica. Il partito è a rischio non per il destino cinico e baro, ma per insufficienza politica e culturale. Qualcosa che non si risolve nelle stanze d’apparato. Il problema è salvarsi dentro una coalizione. Altrimenti i Ds possono scegliere di salvare egoisticamente ciò che sembra salvabile: tranne accorgersi che si è cercato di curare la malattia con la malattia.

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