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La finanziaria del patto col diavolo

31/10/2002

Sono bastate poche bordate, in parte dal centro della maggioranza e in parte da destra, per liquidare la legge finanziaria "di rigore e di sviluppo". Prima il presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, ha fatto sapere che i deputati hanno tutte le carte in regola per cambiare la legge di bilancio, «e la Camera lo farà», poi il vicepremier Gianfranco Fini ha intravisto il pericolo che segmenti del centro-sinistra possano votare gli emendamenti dell’Udc, a partire dalle misure per il Mezzogiorno, e ha annunciato una mezza rivoluzione nei provvedimenti economici, in modo da ripresentarli come un pacchetto di governo e non come un’infiltrazione ulivista nella politica del centrodestra. Ma sia nel caso che le misure "centriste" della finanziaria vengano inquinate da sinistra sia che il governo se ne appropri per non lasciarle contaminare, il risultato cambia di poco: la finanziaria di Tremonti è un pezzo di modernariato. Prima era un’illusione, dato che tutti i conti erano impiccati a quel dato, la crescita del Pil nel 2003 al 2,3 per cento, che tutti-tutti-gli istituti di ricerca economica giudicano ampiamente sovrastimato; adesso è più che altro un caro ricordo. In sostanza, dietro la guerra di parole fra la Lega e i postdemocristiani non c’era solo l’onore offeso di questi ultimi: le parole erano piuttosto il sintomo di una seria sfasatura politica tra le componenti della Casa delle libertà. Non ci volevano capacità profetiche per capire che il centrodestra è un condominio, in cui gli inquilini sono divisi culturalmente su ogni scelta di governo. La Cdl è sempre stata tenuta unita dall’idea del potere, non da un comune sentire politico. Prima che con i cittadini, il "patto" berlusconiano è stato sottoscritto dai soci della coalizione: prevede che l’alleanza sia irreversibile, costi quello che costi in termini di coerenza politica e governativa. Rispetto al controllo delle posizioni, le misure di governo sono una subordinata. In questo senso, il Patto per l’Italia, il salvataggio della Fiat, il concordato fiscale, il condono tombale, i tagli di spesa agli enti locali sono semplici oggetti pubblicitari o materiale di contrattazione e di scambio. Ciò che conta è che l’alleanza politica tenga, malgrado tutto. Il patto principale riguarda i contraenti della coalizione, e deve essere ferreo, a dispetto dei funambolismi e della contabilità irrealistica che caratterizzano l’azione di governo. Ottimo. Ma non si avverte una certa aria di déjà-vu? Non abbiamo già sperimentato un’alleanza politica in cui la stabilità e la continuità, con il legame di ferro tra i soci, erano assolutamente prevalenti rispetto ai contenuti del governare? Ma certo che lo si è già visto. Si chiamava Caf, e rappresentava l’unione anche questa considerata irreversibile fra i protagonisti della fase finale e drammatica della Prima Repubblica. Con una differenza sostanziale, come accennano confidenzialmente, più sconsolati che cinici, gli esponenti più consapevoli della Casa delle libertà, cioè gli eredi della tradizione democristiana: che questo è un Caf di serie B. Vale a dire senza nemmeno il piglio perentorio di Craxi, la professionalità scaltra di Andreotti, la sapienza elusiva di Forlani. Ciò significa che la Casa delle libertà si basa su un contratto nefasto: è stato sottoscritto un patto col diavolo, ma a questo punto qualcuno comincia a temere che il prezzo richiesto dall’incarnazione contemporanea di Belzebù sia troppo alto. Si potrebbe trattare tutto questo come "problema loro", se non fosse che è il paese nel suo insieme a rischiare di pagare un prezzo troppo doloroso. Incapacità di governo da parte del centrodestra e irreversibilità del patto politico che lo sorregge sono una combinazione virtualmente micidiale. Fino a ieri si è sempre sostenuto che chi ha vinto "deve" governare, per tutta la legislatura. Benissimo: ma se il nuovo Caf provoca danni gravi, che si fa, un bel viso a cattivo gioco in nome del bipolarismo? Oppure sarà bene che qualcuno cominci a preparare una via d’uscita?

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