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La fortezza comunista

11/05/2000

A leggere i verbali della direzione del Pci pubblicati in questo numero dell’"Espresso" sembra di precipitare in una preistoria del nostro paese. La stenografia toglie pathos alle parole dei protagonisti, ma fissa in modo oggettivo abitudini di pensiero, stili di argomentazione, dubbi indotti da un dramma cruciale e irrigidimenti dettati dall’autoconsapevolezza di un partito investito dalla missione di rappresentare la consistenza dello Stato. Ciò che colpisce a prima vista è l’immediatezza con cui la tragedia personale di Moro viene liquidata. Nel momento in cui si ha notizia dell’agguato di via Fani, il leader dc scolora da individuo a problema politico. Ogni ipotesi di salvezza svanisce di fronte alle questioni strategiche. La leadership comunista si trova di fronte a un dilemma duplice: deve fronteggiare la Dc, all’interno della solidarietà nazionale, qualificando il Pci come il partito della tenuta istituzionale; e nello stesso tempo sente l’obbligo di mobilitare la società per sterilizzare la sfida brigatista. Ecco perché ricorrono continuamente le parole d’ordine della mobilitazione, della vigilanza "di massa", della compattezza del partito. Ma nello stesso tempo serpeggia l’ombra di un uso strumentale della tragedia: non tanto per cinismo, quanto per un’autorappresentazione che assegna al rigore del Pci il ruolo centrale nella resistenza di uno Stato che "non può e non deve" essere identificato soltanto con la Dc. Tutto ciò si esemplifica dopo il ritrovamento della prima lettera di Moro. Il regista del compromesso fra Dc e Pci viene immediatamente dequalificato al rango di una non esistenza. Sotto la guida di un taciturno Berlinguer, si affronta la pratica negando ogni qualità politica al suo messaggio. Moro a quel punto è un frammento in un meccanismo che inesorabilmente lo schiaccia. Fino alla conclusione del dramma, il Pci appare come un fortilizio che si compatta grazie alle sue logiche esclusive. Fuori ci sono i guerrieri rossi, organizzati ed efficienti. Fuori c’è la Dc, un ventre molle spaventato e imprevedibile. Dentro, all’interno della fortezza comunista, c’è invece un partito che si racchiude in se stesso. Un partito che non ha informazioni significative sugli avvenimenti, ma che dà fondo alla propria strumentazione e da quella non esce. È il partito della fermezza: ma anche dell’immobilità, che mentre si sforza di essere il titolare della resistenza istituzionale, si configura come un’isola in un passato.

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