gli articoli L'Espresso/

La guerra perduta dei figli dell’Aquila

17/10/2002

È una telefonata, e una parola, "Salò", a mettere in moto la narrazione: «Il mio nome è Alba M., sono un medico pediatra, il mio indirizzo di Padova è questo, e questo è il telefono. Sono sicura che mi chiamerà». Comincia così l’ultimo libro di Giampaolo Pansa, "I figli dell’Aquila". L’aquila è il simbolo della Repubblica di Salò. I suoi figli sono una generazione che ha scelto la parte sbagliata e sconfitta, in un Paese «che ama soltanto i vincitori, e adesso più che mai». Se nel suo libro precedente, "Le notti dei fuochi", Pansa aveva narrato la nascita del fascismo, in quest’ultima opera si inoltra nel lato più buio della nostra storia. Forse è il suo libro più duro; probabilmente sarà il più controverso e discusso. Perché è la storia della guerra civile, chiamata così, senza abbellimenti: e per molti, anche dopo il grande libro di Claudio Pavone, parlare di guerra civile comporta ancora una intonazione inaccettabile, l’infrazione rispetto a un’ortodossia, al monumento resistenziale, tragico ed eroico, che "fonda" la Repubblica. La trama è presto detta: una signora ottantenne racconta all’autore i mesi sconvolti dopo il colpo di Stato del 25 luglio e l’8 settembre. Lo fa attraverso la storia del suo fidanzato, Bruno A., un figlio della piccola borghesia parmigiana: uno dei tanti che scelsero l’onore, la fedeltà, la "patria", contro il "tradimento" e il disonore. Ecco allora che un ragazzo ventenne si arruola nella X Mas, nei reparti del teschio con la rosa in bocca, agli ordini di un soldato eccezionale, il principe Junio Valerio Borghese, in una formazione dominata dalla rigorosissima ed egualitaria disciplina imposta dal suo capo. Ma non si pensi che uno scrittore come Pansa abbia semplificato la storia attraverso un personaggio. Bruno è soltanto un simbolo vivente, una specie di segnale colorato che si staglia nel fluire degli avvenimenti: i combattimenti nel mattatoio di Anzio, il trasferimento in Germania nel campo di Grafenwöhr, dove si raccolgono i 15 mila uomini della Divisione San Marco. Un addestramento affrettato, e poi il trasferimento fra la riviera ligure di Ponente e l’Appennino, in una zona di guerra informale, aspettando un nemico, gli Alleati, che fino all’ultimo non verrà e cullando la speranza di andare a combattere a viso aperto sulla Linea gotica. La San Marco è una "balena arenata", condotta a proseguire una guerra già perduta senza la guida di un pensiero strategico, fra la diffidenza dei comandi tedeschi e sottoposta ogni giorno alle fiocine delle bande partigiane. È qui il vero corpo del racconto: nella descrizione minuziosa di una "normale" quotidianità militare che di normale non ha più nulla. Pansa evita deliberatamente i grandi dilemmi che presiedevano alle decisioni individuali e collettive di quei giorni, e soprattutto si sottrae al senno del poi. Non ci sono da una parte gli alleati dello sterminio e dall’altra i complici del Gulag. Non è affatto di queste contrapposte filosofie della storia che è intessuto il libro. Bensì nella descrizione meticolosa di come la guerra civile, fra italiani, diventa via via un meccanismo inesorabile, al quale nessuno riesce a sottrarsi. Se qualcuno prova a esimersi da quella logica feroce, come fa il comandante della San Marco, il generale Amilcare Farina, che si sforza di imporre il rispetto del codice d’onore militare, diviene forse lo sconfitto più sconfitto di tutti. Perché la guerra civile è un insieme anonimo, brutale, dove tutto è praticabile, in cui la rappresaglia diventa vendetta, e le ritorsioni uno stillicidio di disumanità atroci. La forza a suo modo terribile del libro di Pansa è nell’accelerazione continua di quella macchina impersonale che macina diserzioni, torture, fucilazioni; e nel suo sguardo che osserva e registra con secca esattezza documentaria ogni singolo atto, ogni tradimento, ogni morte. Senza giudicare. O meglio: è chiaro fin dall’inizio del libro che i due protagonisti del dialogo, l’autore e Alba, sono intellettualmente dalla stessa parte. Tuttavia l’orrore quotidiano della guerra civile viene sottoposto a un esame senza pregiudizi. La guerra di liberazione vista dall’"altra parte" non viene guardata come una lotta ideologica, condotta da bande di fascisti invasati, di briganti e assassini; e l’epopea partigiana viene analizzata senza nascondere nessuna delle viltà, delle discordie, dei tradimenti compiuti da quelli della parte giusta. Alla fine, è un corpo a corpo continuo. Per quelli della San Marco, il tradimento tedesco, la rotta verso il Po, la resa finale sono solamente corollari: «Ormai», dice Alba, «l’impressione era quella, terribile, di vedere due torrenti in piena che s’infrangono l’uno contro l’altro: il primo per arrivare presto alla vittoria, il secondo per far pagare cara la propria sconfitta». Di quei due torrenti che confluirono nel fiume della guerra civile, Pansa ha voluto trovare anche le "anse quasi sconosciute", gli eventi non detti, perfino quelli indicibili. Lo ha fatto con una passione fredda, in un dialogo che per sovraccarico emotivo, per tragicità intrinseca, diventa nelle ultime pagine quasi insostenibile. Eppure il coinvolgimento è appassionato ma allo stesso tempo sorvegliato: forse affinché la memoria non diventi, o non resti, furore.

Facebook Twitter Google Email Email