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La musica infinita

16/04/2009

Per quasi mezzo secolo i protagonisti del mondo musicale hanno cercato di trasformare la struttura delle canzoni. Le hanno allungate, deformate, stiracchiate, amputate. In "Aftermath", annata 1966, i Rolling Stones registrarono "Going Home", un interminabile blues di 11 minuti e 18 secondi, che sconvolgeva le abitudini dell’industria discografica a 33 giri, e naturalmente degli ascoltatori. I Beatles provarono a sfuggire alla dittatura di quelle che Paul McCartney avrebbe chiamato «silly love songs», sciocche canzoni d’amore, con i loro esperimenti melodici, i medley di "Abbey Road", lo sperimentalismo acido del celebre album bianco. Poi non c’è che l’imbarazzo della scelta: si è passati attraverso l’ascolto delle lunghe suite del rock "progressive", il flauto neoclassico di Ian Anderson, le "opere rock" degli Who e dei Pink Floyd, i distruttivi ed elementari "power chords" del punk, fino agli esperimenti siderali dei Radiohead, alle prove barocche di Sting, ai lirismi spettacolari di Björk, agli esercizi vocali unisex di Antony and the Johnsons. Il catalogo delle variazioni sulla forma canzone sarebbe lunghissimo, e comprenderebbe fra i capitoli fondamentali, in casa nostra, anche certe magnifiche filastrocche di Rino Gaetano, l’immaginazione rétro di Paolo Conte, e soprattutto lo sforzo di demolizione condotto in cinque dischi esoterici, da "Don Giovanni" a "Hegel", a opera di Lucio Battisti e Pasquale Panella (con certi versi mai scritti e mai ripetuti in una canzonetta italiana, tipo «quando sei per me dolcezza e liturgia, orgetta e leccornia»). Ma negli ultimi tempi è successo qualcosa di inatteso. È vero che le canzoni hanno resistito, opponendosi a qualsiasi tentativo di decretarne la morte e la trasformazione. Si sono invece trasfigurate, perché in primo luogo è cambiato radicalmente il modo di ascoltare la musica. Ormai viviamo in un flusso sonoro in cui le canzoni possono essere processate dall’iPod, come pure dalle suonerie del cellulare, dagli archivi di Google, concludendo la loro esistenza dentro un flusso sonoro scarsamente differenziato, tutto "random", casuale, privo di scansioni e di identità singole. Una canzone allora può essere usata come sottofondo, o ancora meglio, o peggio, come "desilenziatore" negli ascensori dei grattacieli e nelle hall degli alberghi, con quell’effetto "lounge" che trasforma le aree comuni, di transito e di stazionamento, in spazi di tipo aeroportuale, o in corridoi di ipermercato, come pure restringersi invece nello spazio pneumatico dell’auto: è indimenticabile la Golf nera di Michele Serra, emblema di un mondo musicale giovanile in cui il suono viene pompato nell’abitacolo a pressione, con effetti prevedibili sulla psiche di chi c’è dentro (e, per Serra, simbolo del male, e del degrado della civiltà). La perdita d’identità, per le canzoni, rischiava di essere fortissima. Già il settore si trova in uno stato di sovrapproduzione, che porta a rendere particolarmente difficile isolare un pezzo e ricordarlo, non si dice farlo diventare uno standard. Per qualche tempo c’è stato lo strumento difensivo del karaoke, che impone di selezionare qualche decina di brani riconoscibili e di renderli patrimonio comune, una specie di canone contemporaneo conosciuto da tutti o quasi. In parallelo, si è tentata la strada dei grandi eventi come i ripetuti "Live Aid", le reunion dei gruppi più famosi e fossilizzati, i duetti fra artisti di punta. Ma oggi, per l’ascoltatore comune, le canzoni sono un puro fluire, non sono isole sonore riconoscibili. Quindi, per l’industria dell’intrattenimento musicale è sorta la necessità di fare risuonare le canzoni in contesti diversi. Di riprogettare le canzoni e la loro esecuzione. Non c’è più soltanto il concerto, con la successione implacabile, la scaletta intoccabile, l’alternanza fra brani ritmati e lente ballate; e neppure soltanto il disco, con la religiosità arcaica dell’ascolto in poltrona. La musica popolare ha cercato altri "ambienti", e li ha trovati con una certa efficacia. È in corso infatti una specie di rivoluzione, innocua ma potente. Forse il capitolo più importante di questa svolta è avvenuto con il film della regista Julie Taymor "Across the Universe", costruito su 33 canzoni dei Beatles, eseguiti dagli attori, con alcuni cameo formidabili (Bono e Joe Cocker fra gli altri). È ovvio che collocati dentro una sequenza narrativa formale i pezzi del quartetto di Liverpool assumono sfumature e colori nuovi: la storia esalta le canzoni e ne viene esaltata, con effetti psicologici potenzialmente irresistibili. Non è un semplice ritorno al musical. È una forma ibrida nuova, che ricontestualizza le canzoni e le trasforma in detonatori narrativi, con risultati talvolta esplosivi. Si selezionano i brani e su quelli si costruisce la storia. Il format è quasi sempre inesorabile. La gente al cinema piange e ride, canta, si emoziona. Un’operazione analoga, anche questa fortunata, è stata quella di "Mamma mia!", che fu prima un musical basato sulle musiche degli Abba. E poi è diventato un film di successo, intessuto di 24 canzoni in cui brilla la classe assoluta di Meryl Streep, e che fanno battere il piedino anche allo spettatore più tiepido. Insomma, la formula si è capita. Le canzoni sono un giacimento: possono essere sfruttate come materiale grezzo, vendute a un distributore come pura essenza liquida in serbatoi anonimi, oppure inserite in contesti nuovi, dove diventano capitoli di una sequenza narrativa: servono come snodo nel racconto, oppure come sintesi sentimentale, in una grammatica che esalta il loro contenuto emotivo: Pier Paolo Pasolini parlava del «potere abietto» delle canzoni, un che di ricattatorio che scatta immancabilmente, se si è minimamente disponibili, facendo partire un brivido di piacere, fra il melodramma e il kitsch. Ecco, proviamo a trasferire il potere ricattatorio delle canzoni da una sala da ballo a un film con gli effettacci giusti al momento giusto, e il risultato sarà infallibile. Si ride, si piange. Nell’ultima serie di "Dr. House", il finale comprendeva sempre una canzone che faceva da consacrazione passionale alla puntata, magari con il protagonista che la accompagnava al piano o alla chitarra elettrica, e naturalmente erano lacrimoni e riflessioni amare anche per gli spettatori più disincantati. In modo analogo, nella fiction di Raiuno "Tutti pazzi per amore", grazie alla verve narrativa dell’autore Ivan Cotroneo, l’universo televisivo della soap, ripetitivo e prevedibile, veniva riscattato e proiettato nei cieli del sentimento e della passione con i protagonisti che cantavano una canzone italiana di quelle adeguate all’occasione (con brani di interpreti popolari come Umberto Tozzi, Matia Bazar, Jovanotti, Giorgia). Fa un po’ ridere, all’atto pratico, che il protagonista di un serial si fermi sulla porta di casa e si sgoli per amore o per solitudine? No, perché una volta assunto come ragionevole l’artificio, tutto risulta naturale. Tanto più che non ci sono soltanto i serial. A teatro, Neri Marcorè ha reinventato i song di Giorgio Gaber, ricollocandoli intorno al personaggio del "Signor G." e facendoli diventare capitoli di una storia esistenziale simbolica, un emblema della spersonalizzazione nella nostra contemporaneità. Shel Shapiro, la classica voce guida dei Rokes, ha preso un testo di chi scrive ("Sarà una bella società") e lo ha costellato di canzoni d’epoca, in modo da far riascoltare il sound dei Sixties: anche le canzoni più note, in questo modo, da "Blowin’ in the Wind" a "California Dreamin’" vengono sottratte al clima del revival e ricompaiono filologicamente come testimonianze d’epoca, piccoli insostituibili prodotti di una storia. E che dire dell’operazione multimediale di Claudio Baglioni? Il romantico divo dei pianoforti bianchi ha preso la sua canzone più famosa, "Questo piccolo grande amore", e lo ha trasformato in "Q.P.G.A.", un acronimo che comprende un album, un tour, un film e un romanzo (pubblicato da Mondadori, la versione cartacea di "Q.P.G.A." sta scalando le classifiche e moltiplicando le ristampe). Se poi ci si sposta nell’ambito della tecnologia, le cose si complicano ulteriormente. Esistono giochi da console famosi come "Rock Band" o "Guitar Hero", in cui si possono riprodurre, suonate e cantate, canzoni celebri, misurandosi di volta in volta con la musica dei Sex Pistols, Smashing Pumpkins, Metallica, Michael Jackson, Linkin Park. E fra qualche mese dovrebbe essere pronto il videogame dei Beatles, che sarà una sorta di edizione speciale di "Rock Band" (dovrebbe costare 250 dollari, inclusi chitarra, batteria e microfono, e darà la possibilità di interagire con cinquanta brani; in futuro il catalogo dovrebbe ampliarsi fino a 300 canzoni). Insomma, la musica non è mai finita. Assume sempre di più la forma del "progetto". E siccome le canzoni non finiscono mai, si tratta semplicemente di trovare il modo di reinventarle. Sono già pronti i software che consentono di intervenire a fianco delle superstar globali in alcuni tra i più famosi concerti live. Ma è probabile che per qualche tempo il modo più funzionale di ridare fiato alla musica sarà quella di trattarla come un elemento dentro una storia, televisiva, cinematografica o teatrale che sia. Anche in Italia, anziché il concerto di Zucchero, di Vasco Rossi, di Adriano Celentano o dei Pooh potrebbe diventare più interessante assistere a una storia "raccontata" dai protagonisti, metà recitata, metà cantata, assistita da video e luci. È anche il modo, per i capitani di lunghissimo corso della musica popolare, di riciclarsi senza ricorrere a trucchi troppo impegnativi contro l’età. Perché si sa, i cantanti passano; ma una canzone, se viene messa nel contesto giusto, in un ambiente nuovo e piacevole, è per sempre. n

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