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La nostra penna suona il rock

15/02/2001

Combattenti, partigiani, militanti del rock movement, all’appello. Ecco il soldato Enrico Brizzi. Ex bassista della band amatoriale "Le anatre". Autore nel 1994, a vent’anni, di "Jack Frusciante è uscito dal gruppo", 500 mila copie vendute. Poi "Bastogne", 300 mila, e altri due libri, "Tre ragazzi immaginari" e "Elogio di Oscar Firmian e del suo impeccabile stile". Il veterano è Loris "Lorenzo" Marzaduri, quarantacinque anni, ex cantante di un gruppo di r’n’b, laureato da poco e per sfizio al Dams, autore per Transeuropa del noir "Rito mortale" e di "Sergio Rotino contro Rommel e Benito Adolfo Castracani". Insieme hanno scritto un libro, "L’altro nome del rock", in cui la musica si intreccia con le storie raccontate. Perché il rock, dicono loro, è innanzitutto uno schema di resistenza umana. Li abbiamo incontrati a Bologna, commentando una collezione storica di 33 giri, dai Doors ai Rolling Stones, dai Genesis ai Pink Floyd. Tema apocalittico: c’è ancora una cultura rock, e ha un riflesso nella società attuale? Oppure si tratta di un’eredità di nicchia, di una nostalgia generazionale? Brizzi: «Nella cultura di massa il rock in quanto tale non c’è. Le riviste specializzate non vendono, i gruppi d’avanguardia idem. Piuttosto, il rock si è impresso sulla pubblicità, sulla moda, lo si vede nelle acconciature, nel look». Cioè in bilico fra avanguardia e massificazione. Marzaduri: «Resta un’avanguardia. Anche se c’è un paradosso del rock, che consiste nell’essere una rivoluzione che agisce dentro i circuiti industriali di massa, e ne ha bisogno per esprimersi. Per cui anche Madonna è un’immagine rock, anche se mediata dal marketing». Brizzi: «Però l’essenza autentica del rock consiste in una dimensione residuale, resistenziale…». Eccoci qua, il rock è di sinistra. Marzaduri: «Sulla sinistra ci andrei cauto. Diciamo antagonista a un sistema consolidato, ma senza proposte inquadrabili politicamente. Da un certo momento in poi, la parola d’ordine più esplicita diventa il "No future" dei punk. Rifiuto della politica come guida, niente messaggi, scontro situazionista qui e ora». Una rottura nichilista. Mentre i padri del rock slittavano nella maniera. Brizzi: «Certo, i Rolling Stones hanno cominciato a rifare se stessi aggiungendo tecnologia. Oggi succede agli U2 di ripetersi per ragioni commerciali. L’industria tende a saturare le creatività». Qualcuno ha tenuto duro. Marzaduri: «Gente come Frank Zappa, gli Ultravox, i Sex Pistols. Oppure, ancora più radicali ed enigmatici, i Residents, di cui non si sono mai visti i volti, perché andavano in scena mascherati, con una negazione totale delle leggi dello show system». Brizzi: «Oppure i Clash, che per otto anni hanno tenuto la scena e la linea, senza flessioni e senza compromessi». Ma tutto questo non è settarismo? Brizzi: «In realtà durante gli anni Ottanta i luoghi della cultura rock, a partire dai centri sociali, non si sono richiusi su se stessi, anzi, si sono globalizzati. Hanno messo in circuito esperienze musicali internazionali». Marzaduri: «E anche italiane, se è per questo: solo pochi anni fa i Marlene Kuntz, un gruppo di Cuneo, erano radicalmente alternativi, ora hanno successo anche nel grande circuito, grazie al tam tam non ufficiale». Talvolta si ha l’impressione che dietro l’espressione "cultura rock" ci sia soprattutto un richiamo generazionale, il come eravamo. Marzaduri: «Un bamboleggiare con i miti del cambiamento? Il fatto è che alla fine degli anni Sessanta il rock era la colonna sonora dell’illusione. Con qualche fraintendimento, perché Woodstock non era il nuovo inizio, ma la chiusura di un’esperienza collettiva». Brizzi: «Difatti per reazione lo slogan punk fu "kill the hippies": una contestazione radicale praticata sul campo, alla faccia dei padri imbolsiti». Di tutto questo da noi non è filtrato molto. Marzaduri: «I precursori sono stati gli Area, e subito dopo gli Skiantos, senza i quali Elio e le Storie tese non esisterebbero. Anche i Pitura freska hanno intercettato una tendenza. Ma io mi sento abbastanza eclettico per dire che gli Avion Travel sono interessanti». Brizzi: «Mettiamoci i Cccp, poi divenuti Csi. Ascolto i Subsonica, i Timoria. Senza dimenticare Rino Gaetano, con il suo gusto per il nonsense». Si trovano tracce, fuori dalla musica, di questa cultura? Marzaduri: «Un romanzo come quello di Nick Hornby, "Alta fedeltà", dà un’idea popolare di che cosa significa il rock nelle vite individuali». Brizzi: «In Italia, Tondelli, che aveva il gusto di mettersi in gioco, lui che era già un caposcuola, per andare in caccia di nuovi sperimentatori. Ma anziché mettersi alla ricerca di romanzi con il Dna rock, vale la pena di cercare nella letteratura l’aspetto sperimentale, il ritmo, la tensione: tutte cose che si trovano nel "Super-Eliogabalo" di Arbasino, così come nel "Boccalone" di Palandri, in Tondelli, in Silvia Ballestra». Ma alla fine, c’è un esito politico del rock? Marzaduri: «Io sono un "natural born communist", alle spalle un padre con una storia classica di licenziato politico negli anni Cinquanta». Brizzi: «Ho sempre votato per Rifondazione. Capisco e accetto l’idea di un progetto politico, ma non quella del compromesso. Se il programma della sinistra moderata è uguale a quello della destra, mi tiro fuori e seguo l’unica politica che mi sembra praticabile, quella di una classe sociale dispersa, fatta di storie e conflitti che si affrontano "on the road"».

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