Primo passo: leggere l’inchiesta dell’"Economist" sull’Italia, già definita "homme malade" dell’Europa contemporanea, e mettere agli atti le ragioni dell’incombente catastrofe nazionale, dallo sfaldamento dei conti pubblici alla perdita di competitività. Secondo passo: mettere questo scenario funereo a confronto con il rosa pastello di Silvio Berlusconi: contratto con gli italiani rispettato all’85 per cento, riforme strutturali a iosa, tenuta dell’economia in un periodo di stagnazione continentale. Dopo di che si tratta di vedere chi è nel giusto: il cupo catastrofista Bill Emmott? Oppure il fragrante ottimista Silvio Berlusconi? Nell’Italia di oggi per l’opinione pubblica è difficile scegliere, dato che il governo diffonde rassicurazioni: siamo riemersi dal sotto zero della recessione a un punto decimale sopra la linea. Di fronte a un parziale recupero nella crescita del Pil, i telegiornali parlavano di una performance che aveva reso l’Italia «la locomotiva d’Europa». La responsabilità del cattivo andamento di bilancio dipende dal tecnico Domenico Siniscalco. In ogni caso, la colpa della scarsa competitività è dell’euro «di Prodi» (si dimenticano di Carlo Azeglio Ciampi). E comunque delle sinistre, del sindacato, dell’extradeficit. Mentre pratica il "chiagni e fotti", Berlusconi sembra John Belushi nei "Blues Brothers", quando incontra l’ex fidanzata che vuole ammazzarlo perché non si è presentato al matrimonio. Non è stata colpa mia. È morta mia madre. Mi si è rotta la macchina. Io avrei voluto, ma, ma, ma. E allora, per riassumere: "The Economist" è la bibbia del pensiero liberista. Basta scorrere l’intervista al suo direttore per rendersi conto che l’analisi è, come direbbe Giulio Tremonti, esplicitamente e ineluttabilmente "mercatista". Il fallimento italiano, o il declino, l’avanzamento verso il baratro dipende dall’incapacità di liberalizzare, di aprire alla concorrenza, di eliminare le rendite, la burocrazia, il vincolismo. Il giudizio negativo accomuna il Cavaliere e Romano Prodi, entrambi gli schieramenti, il centro-destra e il centro-sinistra. Niente cultura di mercato, inevitabile il declino, con una sorte argentina già all’orizzonte. La sintesi è evidentemente thatcheriana. Niente sospetti di malevolenza politica verso il Berlusconi «unfit to rule», solo una radicale registrazione dell’incapacità italiana di adeguarsi al laissez-faire. Non ci sarebbe molto di nuovo se il giudizio di Emmott non investisse anche l’opposizione di centro-sinistra: «Chiunque vinca non c’è molta speranza». E qui il dente duole. Per certi aspetti questo giudizio affianca all’"Economist" buona parte dell’establishment italiano. Secondo il quale la Casa delle libertà ha dichiarato implicitamente fallimento, senza tuttavia che l’Unione abbia mostrato programmi e idee di governo tali da poter ragionevolmente invertire il tragitto verso l’abisso. Questa è un’opinione manierista, da parte della nostra élite economica, dettata da un’insopprimibile vocazione alla diplomazia con il potere politico (e in qualche caso gravata da un residuo di ideologismo per cui il governo di centro-destra sarà pure inefficiente, ma è più comodo di un’alternativa). Eppure questo manierismo va sbloccato, e l’unico modo per sbloccarlo consiste nel rendere pubblici i progetti politico-economici che caratterizzeranno l’azione di un governo futuro. Perché oggi il programma dell’Unione è una nuvola indistinta, che non parla ai cittadini e fa leva esclusivamente sulla bancarotta della Cdl. E che lascia spazio alla demagogia berlusconiana riassunta dallo slogan «una casa per tutti» (cioè la rivisitazione del milione di posti di lavoro, delle dentiere per gli anziani, del «meno tasse per tutti», insomma del «sogno»). Quindi, o ha ragione Emmott, e l’Italia è condannata senza appello comunque vadano le elezioni della primavera 2006. Oppure Prodi e l’Unione riescono a parlare alla società italiana e alla sua classe dirigente, indicando problemi, obiettivi e soluzioni praticabili, facendo scattare meccanismi di consenso. Perché a questo punto, il problema maggiore consiste nello smentire l’"Economist" e l’ineluttabilità del declino. Berlusconi può provarci con il populismo. Il centro- sinistra deve provarci con la ragione empirica, con una pattuglia di potenziali ministri credibili e professionali, con un’idea di fondo. Meglio che la tiri fuori, questa idea, prima che sia troppo tardi.
18/11/2005